La Nuova Sardegna

«Dobbiamo conoscere le storie dei migranti»

di Fabio Canessa

Igiaba Scego: i media parlono di loro soltanto come numeri

27 luglio 2016
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SASSARI. Lontano da casa: viaggi, migrazioni e distanze. Questo il tema della nona edizione del festival “Sulla terra leggeri”, affrontato in diversi degli appuntamenti in programma. In questo senso uno degli incontri più interessanti della manifestazione è quello che vedrà protagonisti oggi a Sassari (alle 20.30 al Mercato Civico) la responsabile del progetto Ibby di Lampedusa Deborah Soria, il presidente del Consiglio Italiano per i rifugiati Roberto Zaccaria e la scrittrice Igiaba Scego. Nata a Roma da genitori somali, i suoi ultimi lavori sono il romanzo “Adua” (Giunti), ritratto di una donna alla ricerca di sé in un lungo viaggio dalla Somalia all’Italia, e un libro su “Caetano Veloso” pubblicato dalla Add. Collabora inoltre con la rivista Internazionale, dove spesso si è occupata di questioni relative alla migrazione «che - sottolinea Igiaba Scego - i media in fondo non raccontano».

Cosa vuole dire?

«Diciamo ogni volta soltanto che sono sbarcati cinquanta, cento migranti. Parliamo di fatti contingenti, ma non aiutiamo le persone a capire i fenomeni. Certo è una cosa complessa, ma la grande sfida di oggi è rendere la convivenza tra popolazioni diverse più facile».

Cosa si potrebbe fare ?

«Partire dal far conoscere le persone. Non parlare di loro come dei fantasmi, dei numeri, ma parlare delle loro storie, di quanto possono portare al Paese di accoglienza. Poi i migranti sono di vario tipo. Noi parliamo spesso solo di rifugiati. Ma ci sono studenti, una classe media. Mi piacerebbe vedere dei media che raccontano la complessità di questo mondo, di appartenenze diverse. Noi mettiamo tutto sotto la parola migrazione che non ci fa capire nulla. E da certi media, e da alcuni politici, viene usata solo come capro espiatorio dei problemi».

Ma in Italia è diverso rispetto ad altri Paesi europei?

«Mi meraviglio perché l’Italia è un Paese di migranti. Forse dobbiamo far leva anche sulla storia. Dei nonni, dei padri, ma anche dei figli. Parliamo di migranti come fosse una storia di altri, quando l’Italia in questo momento sta producendo tanti migranti nel mondo. E non fuggono soltanto i cervelli. In tanti non ce la fanno più e partono. La migrazione è una costante umana e forse dovremmo riuscire a parlarne in termini diversi. Una lotta al razzismo aiuterebbe».

Perché il razzismo è ancora così radicato?

«Non voglio accusare il mio Paese, amo molto l’Italia e vorrei migliorasse in tutto. Però tendiamo a dimenticare che abbiamo avuto un regime fascista, feroce, durato vent'anni, che ha fatto una guerra di conquista in Etiopia basandosi su stereotipi assolutamente razzisti e che ci sono state le leggi razziali. Non abbiamo fatti i conti con la nostra storia e questi stereotipi sono rimasti in circolo. Oggi si attaccano al migrante, di qualsiasi appartenenza. Su questo si può lavorare, con la storia, la scuola, facendo conoscere le persone tra loro. Ci manca proprio la conoscenza».

Anche dell’Islam?

«Di tutte le religioni. E non conosciamo nemmeno l’Europa. Che sappiamo dell’Olanda per esempio? Quanto i nostri media ci informano degli altri Paesi europei? Solo quando c'è qualche grande tragedia. Ma non sappiamo nulla. Abbiamo fatto un’Europa dimenticandoci della cultura, solo con il denaro. E questo sta provocando disastri. Bisogna conoscere, conoscerci reciprocamente. Vale anche per i migranti che hanno bisogno di conoscere l’Italia, invece i rifugiati vengono spesso lasciati soli nei centri di accoglienza. La nostra sfida è creare dei cittadini che possono condividere un senso di appartenenza comune».

Da dove ripartire dunque?

«Dobbiamo pensare come si può costruire un mondo più equo, perché in un mondo con così tante diseguaglianze chi vince è sempre mafia e terrorismo. E ripartire dai giovani, senza divisioni tra migranti e non. Abbiamo visto quello che succede in Francia, nelle banlieue. Questa divisione enorme che è pericolosa. Dobbiamo creare dei cittadini che abbiamo a cuore il loro Paese. Il primo passo è dare loro dei diritti e di conseguenza doveri Parliamo solo di terrorismo, ma secondo me siamo di fronte a una crisi generazionale fortissima che alimenta gesti estremi. Dobbiamo far sì che i giovani abbiano una prospettiva di vita, non di morte. Per quello è importante creare cittadinanza».

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