La Nuova Sardegna

«Vi racconto il lato oscuro della borghesia italiana»

di Fabio Canessa

Il Premio Strega Edoardo Albinati parla del suo libro “La scuola cattolica” Lo scrittore il 30 luglio sarà ad Alghero per il festival “Sulla terra leggeri”

11 luglio 2016
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La Sardegna porta bene. A inizio luglio Edoardo Albinati ha partecipato al festival di Gavoi. Pochi giorni dopo ha vinto il Premio Strega. Un mese che lo scrittore romano ricorderà per sempre e chiuderà tornando nell’isola. Il 30 è infatti atteso ad Alghero per un incontro in programma all’interno del festival “Sulla terra leggeri”. Per parlare ancora del suo libro “La scuola cattolica” (Rizzoli) con il quale ha appena conquistato il più importante riconoscimento letterario italiano. «Ma nessun premio - sottolinea - potrà mai certificare in assoluto la grandezza di uno scrittore».

E poi ci sono sempre le polemiche.

«In Italia abbiamo un grosso problema con il sistema dei riconoscimenti. Se non vengono dati ci si lamenta che non c’è la meritocrazia. Se vengono dati che non sono validi. Qualsiasi tipo di prova viene deprezzata perché si pensa sia insignificante».

Però i premi aiutano la carriera di uno scrittore, no?

«Sicuramente un riconoscimento di questo tipo può assicurare di lavorare più serenamente, se questo premio poi corrisponde a un affetto, a un interesse vero che risveglia nei lettori. Se invece è soltanto una medaglia temporanea allora serve a poco. Alla fine i lettori non si fanno ingannare più di tanto. Ci sono stati dei libri che hanno vinto lo Strega ma erano già amatissimi, per esempio quello di Paolo Giordano. Per cui i premi influenzano fino a un certo la carriera di uno scrittore, o meglio la qualità di quello che un autore farà e ha fatto».

Quello che lei ha fatto, con questo libro, è un romanzo molto particolare. Che parte dal delitto del Circeo del 1975. Quando ha iniziato a scriverlo?

«Non avevo nessuna idea fino al 2005, quando c’è stato un nuovo delitto, sempre commesso da uno degli autori del massacro del Circeo. Quando Angelo Izzo ha ucciso di nuovo, una donna e sua figlia adolescente. Allora ho cominciato a scrivere qualcosa, ma non è un libro sul delitto del Circeo o su questo secondo crimine. È un libro sulla scuola, le famiglie, l’ambiente in cui io e gli autori del delitto del Circeo sono cresciuti. Lo spunto è stato questo tragico episodio, ma i veri protagonisti sono il tempo e il luogo. Il tempo è la prima parte degli anni Settanta. Il luogo è questo quartiere Trieste dove c’era la scuola che frequentavamo, e dove abitavano quasi tutte le famiglie dei miei compagni».

La sua Roma.

«Quella non è in fondo nemmeno Roma. Se uno pensa a Roma certo non pensa a quel quartiere, non verrebbe in mente a nessuno di visitarlo. È un quartiere residenziale, borghese, costruito perché non vi accadesse nulla di speciale. Con questa modalità costruttiva tipica romana che è la palazzina, qualcosa che non ha niente a che fare con le bellezze della città o il degrado delle periferie. Un luogo neutro».

Oggi è cambiato rispetto agli anni Settanta?

«È uguale, solo più sporco».

Il libro invece come si è evoluto nel corso del tempo?

«Sono entrati dalle porte laterali molti personaggi, tanti argomenti che avevano a che fare con quello. Prima di tutto l’essere maschi, la conquista della virilità, la crescita di un gruppo di adolescenti in un mondo esclusivamente maschile, il rapporto con l’altro sesso, l’uso della violenza, le usanze borghesi, i neofascisti che all’epoca erano nel quartiere la maggioranza, i preti. Tante cose che hanno fatto lievitare la storia».

E le pagine. Quasi milletrecento.

«Non ho lavorato in sequenza e non ho mai avuto per questo la chiara coscienza di quanto si sviluppasse. Scrivevo su file diversi e un anno e mezzo fa quando mi sono ritrovato tutto questo materiale da montare, mi sono accorto erano 100 file più non so quante pagine scritte a mano».

La prima reazione dell’editore quando ha presentato un volume di quelle dimensioni?

«A tutti è preso un colpo quando hanno visto questo mattone. Poi abbiamo discusso, studiato anche la modalità tipografica adatta. C’era preoccupazione, ma accompagnata alla consapevolezza potesse funzionare».

I lettori in effetti hanno risposto bene, già prima della candidatura allo Strega.

«Secondo me viene preso un abbaglio quando si dice che tutti vogliamo soddisfazioni pratiche e immediate, piaceri istantanei, che non abbiamo pazienza. Ci sono tante persone che hanno piacere nella dedizione, nella fedeltà, nel tornare sulla stessa cosa, nel ripeterla. E allora l’idea di un libro come questo che per leggerlo ci vuole un mese o due mesi o quanto pare al lettore, è la prova che esiste anche la voglia di attaccamento, un ritorno allo stesso tempo e luogo di lettura. Una sorta di addiction come per le serie televisive».

Sorprende però per un libro non solo lungo, ma anche non facile come “La scuola cattolica”. A proposito, è sempre stato questo il titolo?

«Il titolo mi piace molto, ma in realtà quello originale era “La scuola dei preti”, che è anche il modo colloquiale che si usa per dire si è andati in una scuola religiosa. Però questo poteva portare l’equivoco si trattasse di un seminario, la scuola dove vanno i preti. Per questo abbiamo cambiato».

Scuola, come diceva prima, frequentata dagli autori del delitto del Circeo. Si può trovare un legame tra quel crimine e i femminicidi di oggi?

«C’è un legame simbolico che conferma un dato nel libro cerco di capire, di raccontare. Cioè come nel rapporto uomo-donna sia sempre implicita, sospesa, incombente, la violenza. Cosa che non scatta nel 99 per cento dei casi, però viene fuori a volte in episodi che vanno da un minimo di brutalità a picchi di estrema violenza. Su questo i maschi dovrebbero riflettere. Nessuno per censo, per educazione, per carattere può dirsi totalmente esente da questa ipotesi. Questo il dato comune valido allora e oggi».

Rientra in questa analisi il discorso della crisi dell’identità maschile?

«I maschi sono stati costretti dal femminismo a ragionare di più sulla propria natura che non è affatto quella propagandata per millenni, della forza, dell’integrità, della completezza. Sono più manchevoli e deboli delle femmine. Serve una riflessione collettiva per capire che questa fragilità non è ragione di vergogna e non può essere però surrogata con una protesi che è la violenza».

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