La Nuova Sardegna

Il Mondiale che segnò la fine della Jugoslavia

di Roberto Sanna
Il Mondiale che segnò la fine della Jugoslavia

Gigi Riva racconta i Balcani con “L’ultimo rigore di Faruk”

28 giugno 2016
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SASSARI. Nell’immaginario collettivo italiano i Mondiali di calcio del 1990 restano quelli delle notti magiche spente da un’uscita a vuoto di Zenga e dai successivi rigori contro l’Argentina. In realtà quei giorni ridisegnarono la geografia europea e furono, purtroppo, l’anteprima della sanguinosa guerra dei Balcani. Non Henry Kissinger, che era tra i giornalisti accreditati per seguire l’evento, in un articolo per il Los Angeles Times affermò che «questi Mondiali di calcio segnano il ritorno dei nazionalismi». L a nazionale della Jugoslavia si sbriciolò dopo la sconfitta ai rigori contro l’Argentina ai quarti di finale, con il capitano Faruk Hadžibegic, forse l’unico romantico di quel gruppo ormai diviso, che sbagliò il tiro decisivo. “L’ultimo rigore di Faruk” è il titolo del libro che Gigi Riva, caporedattore centrale dell’Espresso, inviato di guerra nei Balcani dal 1991 al 1999, ha scritto per Sellerio e nel quale racconta il profondo intreccio tra pallone e politica in quegli anni tragici. «In Italia noi seguivamo le partite aspettando il grande evento che poi non è arrivato, cioè la vittoria azzurra – dice – senza accorgerci che invece in Europa stavano succedendo cose speciali esplicitate poi dagli esiti in campo: la Germania appena riunificata e rinvigorita vince con una squadra mediocre, la Jugoslavia, una delle favorite, esce ai quarti, la Romania appena affrancata dal regime comunista batte l’Urss. E anche per noi fu una sconfitta premonitrice: aspettavamo un trionfo che non ci fu e presto il paese precipitò nel vortice di Tangentopoli».

L’intreccio tra pallone e politica che racconta nel libro è davvero inquietante: come fu possibile?

«La spiegazione me la diede un giocatore che a quei Mondiali non partecipò perché squalificato, Mehemed Bazdarevic: i calciatori erano i personaggi più popolari. La nazionale che vinceva in realtà era quella di basket, ma la popolarità era dei calciatori che diventnero ben presto i veicoli più importanti. Non dimentichiamo che le squadre di calcio sono state sempre espressione di posizioni ben determinate: il Partizan era la squadra dell’esercito, la Stella Rossa quella della polizia, la Dinamo Zagabria quella dell’orgoglio croato, l’Hajduk Spalato aveva una curva che ben presto virò verso posizioni di estrema destra. Tifoserie con un altissimo potenziale di violenza che furono poi strumentalmente gestite e indirizzate dalla politica, tanto che qualche anno dopo le ritroveremo con in mano i fucili invece dei sassi».

Arkan, che diventerà il capo della pulizia etnica, compare proprio in curva.

«Ho scoperto successivamente che Arkan non nasce come tifoso. Va in curva su preciso mandato e poi con grande abilità egemonizza la tifoseria trasformandola in una brigata paramilitare indirizzandola verso la politica».

Una gran parte dei calciatori di quella Jugoslavia approderanno poi in Italia e alcuni sono ancora protagonisti, anche se con ruoli differenti.

«Un passaggio abbastanza naturale. Perché i legami sono sempre stati piuttosto stretti per questioni territoriali e poi perché il nostro campionato, all’epoca, attraeva i migliori al mondo. E quella generazione era al top, alcuni li consideravano i brasiliani d’Europa, io li accomuno di più agli argentini per via della cattiveria agonistica che mettono in campo».

Sinisa Mihajlovic e Zvinoimir Boban furono tra quelli che più si esposero per le loro cause: nel suo racconto non c’è un giudizio benevolo, soprattutto del primo.

«Mihajlovic è uno che difende, devo dire con molto coraggio, delle posizioni assurde riguardo i peggiori personaggi di quella guerra. Così come Boban divenne di fatto il testimonial dell’orgoglio croato. E Mihajlovic dice, alludendo a lui senza farne il nome, di essere stato amico di Arkan ma di non avere mai comprato armi. L’intreccio tra calciatori e politica c’era per diversi motivi. Intanto perché comunque si parla di gente molto giovane, facile da coinvolgere. E poi perché il vento era quello, bisogna anche trovarsi nelle situazioni, con le bombe che cadono e il nemico alle porte. Però se il fattore ambientale è comprensibile, non si possono perdonare le dichiarazioni perché quelle nessuno ti costringe a farle».

Un capitolo è dedicato anche al basket, la grande generazione perduta.

«Quello è stato il più grande peccato sportivo. Non dimentichiamo che quella squadra giocò dall’altra parte del globo un campionato mondiale sapendo che c’era la guerra alle porte. Ho ricevuto una telefonata commovente da Boscia Tanjevic che mi ha ringraziato per aver raccontato quella storia in modo onesto e giusto. Spero sia davvero così, di sicuro si tratta di intrecci che solo un terzo, con una visione dall’esterno, può ricostruire. Quando mi chiedono cosa sia il mio libro, rispondo che è un romanzo-verità: tutto quello che viene raccontato è stato rigorosamente verificato».

Pensa che Faruk, segnando avrebbe davvero evitato il crollo della Jugoslavia?

«No e a distanza di vent’anni nemmeno lui lo pensa più anche se quando l’ho conosciuto si presentò dicendo «Sono il calciatore che ha fatto crollare la nazione jugoslava». Però il fatto che la sua gente continui a rinfacciarglielo ci fa capire come nella narrazione popolare sia più facile credere che esista qualcuno capace di cambiare il corso degli eventi piuttosto che a una realtà comunque più complicata. E il calcio può davvero assumere questo potere ed essere manipolato per altri fini. Il suo errore è stato in ogni caso un potente spunto narrativo per permettermi di realizzare un libro che avevo in mente di scrivere da vent’anni».

Le tifoserie croate e russe sono state protagoniste di episodi violenti durante la prima fase degli Europei che si stanno giocando in Francia: come vede questo improvviso ritorno di fiamma?

«La verità è che tendiamo a pensare che il peggio non ritorni o non possa capitare, ma non è così. I fatti che racconto accaddero in un periodo storico particolare, quello del crollo delle ideologie. E adesso stiamo assistendo al grande rifiuto della classe dirigente da parte della gente e che avvicina le persone ai movimenti populisti e antisistema. Sono situazioni nelle quali si crea il miglior terreno fertile per una massa che può essere opportunamente indirizzata. Uno dei tifosi russi che sono stati espulsi, per esempio, è uno dei più cari amici di Putin».

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