La Nuova Sardegna

Le strategie per salvare le zone interne

di FABRIZIO BARCA
Le strategie per salvare le zone interne

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27 aprile 2016
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di FABRIZIO BARCA

Vorrei prendere come punto di partenza del mio ragionamento sulle aree interne del nostro Paese il contrasto tra i segnali di novità che percepiamo – rientro di popolazione, segnali di nuova agricoltura, segnali di nuove filiere di cooperative sociali, adattamento a una domanda sempre più diversificata di prodotti – e la scarsa capacità di questi territori di rispondere a quella domanda. Nelle zone interessate al “Progetto nazionale per il rilancio delle aree interne” – elaborato dall’attuale governo – si registra una caduta demografica significativa, che rasenta in alcuni casi la perdita di una persona su cento all’anno. Poiché molti di questi territori hanno una popolazione intorno alle 100 persone, vuol dire che lì tu vedi fisicamente che non è nato nessuno. Se quei flussi di rientro o di entrata non dovessero diventare significativi, questi territori, molti di questi territori, sono destinati allo spopolamento e alla chiusura. Del resto il Paese è costellato di villaggi, di borghi abbandonati; lo spopolamento è avvenuto tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e ora si accentua.

Valorizzare le diversità. La prima idea che ha ispirato il “Progetto nazionale per il rilancio delle aree interne” parte dalla constatazione che c’è un divario molto forte tra quello che potrebbe essere e quello che c’è. Diciamolo in altri termini: la diversità. Cosa ha di particolare il nostro Paese, che cosa lo tiene unito? Il paradosso è che l’elemento davvero accomunante nel Paese è la sua diversità interna. Come ci hanno raccontato studiosi e storici, è una diversità innanzitutto naturale. Ci sono ad esempio sistemi climatici enormemente differenti a distanza di pochi chilometri. E questo ha consentito a specie vegetali assai diverse di crescere le une accanto alle altre. Come le specie vegetali così i popoli. Che sono arrivati, hanno portato le loro tradizioni, si sono integrati e trasformati. E hanno prodotto nuova diversità: il cibo, la cucina, ad esempio, che rappresentano il segno di una contaminazione in cui ognuno ha rinunciato a un pezzo della propria identità. Ogni seme si è mescolato con altri con cui non si sarebbe mescolato se fosse rimasto in Medio Oriente o in Asia. E così le persone. Non è quindi una tradizione, quella che caratterizza le zone interne, statica, ferma, ma una tradizione in trasformazione. È evidente che un Paese la cui peculiarità sia rappresentata dalla diversità ha un problema, perché vuol dire che deve esserci un livello “meta” in cui c’è un elemento unificante: una filosofia di come affrontare le diversità. La standardizzazione rende tutto più facile. Ma anche ciò che è diverso può avere un racconto unitario. Le diversità, quindi, come primo punto di una possibile strategia di intervento.

Tradizione e trasformazione. Enuncio per titoli gli altri tre motivi forti che ci hanno guidato nell’elaborazione del “Progetto nazionale per il rilancio delle aree interne”.

Un secondo motivo è implicito nella parola trasformazione. Partiamo da quello che c’è, non ci dobbiamo inventare tradizioni inesistenti. Non si diventa altro da quello che si è. Però innovo. È il concetto rilanciato in Europa in questi anni sotto il titolo Smart specialization strategy: strategia della specializzazione intelligente. Ecco allora la coppia identificazione-trasformazione. L’identificazione dei domini tecnologici o settoriali, o anche di aspirazione, di vocazione di un territorio, e poi la loro trasformazione. Se rimango al primo termine, la politica che produco è quella dei sussidi, perché devo mantenere quello che c’era; se invece parlo di trasformazione, allora vuol dire che devo “agitare” questi territori, anche sfruttando il nuovo che viene da fuori.

Filiera dei servizi. Un terzo aspetto è l’attenzione ai servizi essenziali. Io vivo nelle aree interne se ho del lavoro, cioè del reddito da trarre, ma anche se ho un posto dove andare rapidamente se mi viene un infarto; se ho una scuola per i miei bimbi che sia non un po’ meglio, ma sia addirittura migliore di quella che trovo in città; se ho un’accessibilità alla rete sia digitale sia ferroviaria internazionale che in realtà mi renda un cittadino del mondo senza essere segregato. È evidente che questo è un elemento fondamentale. Ma c’è di più. Le filiere di produzione dei servizi sono filiere forti e vive nel nostro Paese. Raccolgono un pezzo interessante di classe dirigente che va da Roma fino alle capitali regionali, fino ai micro-territori: cooperative sociali di produzione; il sistema scolastico, che è la rete più forte di questo Paese, quella che ha retto alla botta di questi anni. Là dentro ci sono sani “eversori”, pronti a trasformare, ad attivare la trasformazione.

Un fattore di unità. Ultima intuizione, la quarta, che sta dentro il “Progetto aree interne”. È un modo per spacchettare il rapporto tra Sud e Nord del Paese, che si è infilato in un buco nero. La classe dirigente nazionale non ce la fa, non vuole saperne del Sud, perché lo concepisce come un serbatoio di voti ma non è convinta che possa venire da lì il salto del Paese. È così. E dunque la una strategia che punti sulle aree interne può rivelarsi unificante per il Paese, perché la somiglianza, fra Sud e Nord, delle aree interne è assai più forte della somiglianza delle aree urbane o metropolitane e urbane minori. Un cittadino della Valchiavenna impara se va in Val Simeto, giù in Sicilia. Un cittadino di Milano imparerebbe qualcosa da Palermo ma non ci pensa proprio di farlo.

Ecco, questi i quattro cardini della nostra strategia, che sono importanti perché rendono sostenibile – politicamente e culturalmente – una strategia finalizzata alle aree interne. Una strategia nell’elaborare la quale – vorrei aggiungere – è stato applicato un principio che abbiamo sempre sostenuto ma di rado rispettato: abbiamo confessato la nostra parziale ignoranza nell’elaborare questo progetto di politica economica, e quindi abbiamo evitato di scrivere già da subito tutte le regole del gioco.

© ROSENBERG & SELLIER 2016

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