La Nuova Sardegna

La Sardegna di Delogu Un’isola fatta di luce

di GIACOMO MAMELI
La Sardegna di Delogu Un’isola fatta di luce

«Chi ha reso meglio il mistero di questa terra? Pablo Volta»

26 aprile 2016
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di GIACOMO MAMELI

Per rappresentare la Sardegna scatterebbe la fotografia di una costa dove le rocce arrivano a strapiombo sul mare oppure una foto dove l'identità sarda oggi fosse rappresentata dalla bellezza del suo interno e da quella del suo mare, dice Marco Delogu, direttore dell'Istituto italiano di Cultura a Londra e fra i massimi fotografi internazionali. Domani alle 18 è ospite della Fondazione di Sardegna a Cagliari, dove sarà intervistato dal fotografo Salvatore Ligios sul tema «La luce che impressiona».

Si può identificare una regione con un idealtipo di immagine?

«Nessuna foto può rappresentare la Sardegna. La cosa migliore sarebbe un grande lavoro di ritratti sui sardi che decidono di rimanere a vivere in Sardegna, realizzato attraverso diverse modalità: autoritratti, insiemi di comunità, immagini storiche. Sarebbe un bellissimo progetto evitando stereotipi. Ho visto una serie di lavori di giovani in questa direzione, sarebbe molto interessante raccoglierli in una grande mostra con anche contributi di chi non è esattamente un fotografo. La fotografia è l'arte dove il gap tra chi l'osserva e chi la realizza è spesso molto sottile».

Un fotografo nato a Roma con solide radici sarde quali differenze di luce trova nel Lungo Tevere o nel lungo Tirso o nel lungo Flumendosa?

«La luce più interessante è quella interiore più di quella dei luoghi. Ultimamente lavoro quasi sempre di notte in lunghe esposizioni di circa trenta secondi a mano, nelle giornate di luna piena. Sto rispondendo a questa intervista in una giornata di ponente in Barbagia dove la luce è tersa, secca, definita. A me piace vederla ma non mi interessa per le foto».

Quale fotografo ha interpretata al meglio la Sardegna?

«Pablo Volta per me è stato il migliore, poi alcuni contemporanei come Salvatore Ligios, Dario Coletti e molti dei giovani che hanno partecipato a meno trentuno, e poi Henri Cartier Bresson, Werner Bischof, e tanti altri. Ma il lavoro di Pablo Volta rimane il più completo e interessante».

La fotografia è un mass media strapopolare usato da tutti: quale differenza fra l'occhio umano e quello tecnologico?

«Enorme. L'occhio tecnologico non ha né l'anima né la storia dell'occhio umano, non mi interessa, sarebbe come dire che con la tecnologia tutti possono fare musica. La profondità dell’esperienza umana, di ogni singola identità, è quella che conduce verso la buona fotografia. La differenza è nell'osservare, nel modo in cui si creano le emozioni, nel voler usare la fotografia e le immagini per creare un proprio linguaggio, e spesso anche nell'aver tempo. Mi piace chi fotografa poco e osserva molto».

La crisi economica sarda è devastante: dal Tamigi ha una ricetta che crei nuovo lavoro fra i nuraghi?

«Purtroppo no, potrebbe aiutare un turismo diffuso, un vivere l'isola tutto l'anno, incrementare le proposte dell'offerta culturale come musei, siti archeologici, festival, e riconvertire spazi . come le vecchie miniere del Sulcis in luoghi dove un turismo giovanile possa sentirsi attratto dalla bellezza e dalla economicità. Il tutto affiancato da possibilità di studio e di riconvertire nell'isola studi e esperienze all'estero. Non mi piace il turismo stagionale, crea spesso una società dissociata e modelli di riferimento sbagliati. Vedo l'isola come polo tecnologico – e sappiamo bene come Tiscali sia importante come esempio e come occupazione – e come polo di eccellenza agro alimentare: ciò potrebbe dare un grande contributo».

Ci sarà un nuovo Michelangelo Antonioni che rifarà un film a Londra?

«Non ci sarà nessun altro Antonioni, un regista che arrivi a quel film con quella storia, proseguita poi con “Zabriskie Point” e nata da una novella di Cortazar. Londra non è più così, è stato un periodo particolare di una città ora completamente diversa, più devota all’economia e alla finanza che alla vita culturale “alternativa” tipica della cultura degli anni '60 e '70. Non vedo un regista italiano interessato a fare un film come “Blow Up”».

Gli inglesi amano l'Italia?

«Gli inglesi amano l'Italia e non so se si sentano superiori e onestamente spero di no, sarebbe triste e non si capirebbe su quale base. Esiste un'élite intellettuale inglese completamente devota alla cultura italiana e in particolare all'arte, alla musica classica, ad autori come Dante, Ariosto e Antonio Gramsci. Proprio Gramsci nel Regno Unito viene molto studiato così come viene preso come punto di riferimento dalla cultura giovanile o da cantautori famosi come Billy Bragg».

Gli autori sardi che ama di più?

«Sergio Atzeni ed Emilio Lussu, mi piacciono anche i racconti brevi come "Il cinghiale del diavolo". Nella letteratura sarda i maestri sono molti, mi piace imparare da persone più giovani».

Il primo lavoro retribuito?

«Un reportage nel 1981 sulle barriere architettoniche negli Stati Uniti durante l'anno dei disabili».

Chi è Marco Delogu?

«Un sardo, nato e cresciuto a Roma, cittadino del mondo, molto curioso delle storie degli uomini e molto emozionato dalle visioni».

Negli anni '60 un grande giornalista, Franco Nasi, aveva titolato un esemplare libro sulla Sardegna "Un'isola senza mare».

«In Sardegna ci sarà ancora il mare, anche perché è il mare più bello del mondo. Credo a un futuro di un'isola dove due paesaggi, e due pensieri, come l'interno e le coste siano sempre più vicini».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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