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Ecco il deejay biancoblù: «Così tiro in... ballo la Dinamo e i tifosi»

di Mario Carta
Emanuele Nugheddu alla consolle del Palaserradimigni
Emanuele Nugheddu alla consolle del Palaserradimigni

Basket, Emanuele Nughedu sceglie le colonne sonore del PalaSerradimigni: da Faccia di Trudda, all’inno dell’Euroleague e all’heavy metal per Brian Sacchetti

21 ottobre 2016
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SASSARI. Alla Dinamo con gli occhi e con il cuore. E con le mani, certo. Per applaudire, e per mandare a quel paese l’arbitro. Ma alla Dinamo anche con le orecchie grazie al deejay che dal pulpito nell’angolo del settore D commmenta, accompagna, trascina, sprona, consola, esulta ed esalta i tifosi. Il basket senza la musica non sarebbe basket, a questo livello, e la Dinamo Sassari sotto questo profilo è di altissimo livello sin da quando a inventarsi il mestiere fu Antonio Deiara, maestro di musica e compositore (suo l’ultimo vero inno della Dinamo), che già ai tempi della serie B e della A2 faceva la differenza rispetto a tutto il resto dell’Italia cestistica, distinguendo la Sassari dei canestri. Invece di Madonna durante i timeout sentivi e ballavi Who e Deep Purple. Vuoi mettere?

Ora da quel pulpito da quattro stagioni a predicare quattro quarti e r&b è Emanuele Nughedu, 40 anni, bolotanese nato a Nuoro e da 11 anni a Sassari, dove lavora in una compagnia di assicurazioni. La musica ce l’ha nel Dna. A 4 anni ha cominciato a studiare violino, a 13 ha smesso e ha cominciato a scatenarsi alla console. Sostenuto dai genitori ha cominciato a far girare il piatto in feste private e circoli. Qualche discoteca, una stagione a San Teodoro e i dischi che intanto si accumulavano. Nella collezione ne ha 4500 e ha smesso di comprarli soltanto nel 2011 restando al solo digitale, spaziando dal jazz alla classica con tanta house e r&b.

Non pensa che We will rock you abbia fatto il suo tempo?

«Sì, sarebbe bello poterla sostituire con qualcosa di altrettanto valido ma ha molto ritmo, carica il pubblico. E comunque durante la partita non la sto più mettendo, solo prima della palla a due».

Com’è che si è ritrovato in questo ruolo?

«Vivo per la musica. A casa, in auto, sempre. E il basket lo seguo dal ’96 trascinato dalla mia compagna, Carla. Viaggiavamo ogni fine settimana da Bolotana. E’ nato tutto per caso una sera nella Club House, mi hanno chiesto se poteva interessarmi. Ero titubante ma il presidente Sardara mi ha detto «perché non fai una prova»? Ho pensato fosse una buona opportunità ed eccomi qui».

I giocatori le chiedono qualcosa di particolare?

«Certo, in particolare gli americani. Per loro soprattutto rap, nel riscaldamento. Per Brian Sacchetti invece heavy metal».

Niente Kamazi Washington o Jacob Collier, insomma. Una volta al PalaSerradimigni si ascoltava più rock.

«Erano altri tempi, ci ho provato ma qualcuno si lamenta. Troppo rock, dicono. Io ho altri gusti, la musica che piace a me è tutt’altro. Ascolto dalla classica al jazz ma devo rispondere alle richieste del palazzetto. Sempre secondo la mia competenza, certo».

Come funziona?

«Non ci sono regole federali da seguire, non c'è un volume, gli obblighi sono i jingle pubblicitari e i tempi dei timeout quando devi sfumare. Lavoro a braccio, non ho una scaletta fissa perché dipende dall’andamento della partita, ogni volta aggiungo brani nuovi tra quelli che vanno di più».

Il motivetto dell’Euroleague, l’inno nazionale prima delle partite di campionato...

«Che orgoglio, la prima volta in Euroleague. Un orgoglio particolare. Prima di ogni gara a quel livello c’era sempre un po’ di tensione, è una manifestazione internazionale, la vedono tutti e fare bella figura è un obbligo. E’ andato tutto bene».

Mai un incidente?

«Più di uno, il peggiore proprio nell’ultima partita di Euroleague quando mi si è bloccato il computer. Per un paio di timeout niente musica».

C’erano i tifosi.

«Sì, la partita la fanno la squadra e i tifosi, non certo io. Quando partono i cori abbasso il volume. Devo capire di basket, essere un po’ psicologo, rendermi conto dell’andamento e conoscere il pubblico, sapere quando mettere un pezzo e quando un altro»,

Com’è nata la leggenda di Faccia di Trudda?

«Anno dello scudetto, ultima partita della serie playoff con Trento. Il presidente Sardara voleva ricordare Giovannino Giordo, per il ritmo mi avevano consigliato Lu Zarrettu ma ho caricato anche altri brani fra i quali Faccia di trudda, mi piaceva l’aria di tarantella. La mando? Non la mando? L’ho mandata. Ed è esplosa. Il giorno dopo i like hanno intasato la mia pagina Facebook, ora è quasi un inno».

C’è anche Urlando contro il cielo.

«Quella è stata voluta dai giocatori, dai veterani, a partire da Vanuzzo».

Com’è questa esperienza?

«Mi ha consentito di conoscere tanta bella gente e l’ambiente Dinamo. Ho fatto un tour accompagnando le nazionali di volley nell’isola e tutti i tornei estivi della Dinamo. Poi, ogni palazzetto ha il suo uomo della musica ma restano fondamentali squadra e giocatori, ripeto. Io sono solo la colonna sonora».

Ma anche quelle vincono l’Oscar.

«Vero, però conta di più il pubblico e io sono il primo a seguirlo, anche negli orientamenti. Se qualcuno mi chiede un brano, nella mia pagina Facebook, se è valido lo mando volentieri».

Emozioni in campo e dalla sua postazione.

«Divertimento ed emozioni, sì, come quelle che provi quando vedi la gente che balla in tribuna, a partire dai bambini che sono i primi veri animatori alle partite della Dinamo».

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