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«Ci vuole il coraggio di non avere paura»

di Giovanni Dessole
«Ci vuole il coraggio di non avere paura»

Il navigatore sardo Gaetano Mura ha presentato a Roma il suo giro del mondo a vela in solitario, senza scalo e assistenza

26 luglio 2016
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SASSARI. Tre mesi circa d’attesa prima di spiegare le vele al vento, quindi oltre quattro mesi in mare a circumnavigare il globo a caccia di un record possibile nel “Round The Globe”, regata transoceanica in solitario, senza assistenza e senza scalo. L’impresa è stata presentata ieri mattina a Roma in una conferenza stampa curata e convocata da Enit (Agenzia Nazionale per il Turismo) e Regione Autonoma della Sardegna (presente l’assessore Morandi).

Questo il prossimo futuro di Gaetano Mura, velista di Cala Gonone classe 1968, protagonista di una storia «che è la mia storia. Una storia ancora tutta da scrivere, finale compreso», che lo porterà a navigare attorno al mondo a bordo della sua “Black Sam”, un Class40 di 12 metri. Un viaggio d’avventura come quelli narrati da Jules Verne, ma connotato da una forte componente tecnologica e scientifica, dato che Mura sarà costantemente monitorato da una equipe medica a distanza e lui stesso monitorerà l’ambiente che lo circonda. Mura sarà testimonial e ambasciatore di Sardegna, uomo che prova a spingere all’estremo il sogno del navigare e a vincere la battaglia contro il mare e contro sè stesso.

Presentato l’evento, ora che succede?

«Sono rientrato in Sardegna, a Cagliari, non posso permettermi di stare troppo tempo lontano dalla barca. La conferenza di presentazione rappresentava uno step importante, ma ora c’è da fare. Diciamo che non sono in vacanza».

Non sente la pressione del tempo che passa e che la separa dalla partenza?

«Oggi per me il concetto di tempo è relativo. La percezione che si ha al di fuori è differente da quella che ho io nella mia testa: per quanto mi riguarda si parte domani. La realtà è che fa tutto parte di un percorso mentale che corre parallelo a quello fisico e tecnico. Diciamo che rispetto allo scorrere dei fogli sul calendario mi sento posizionato abbastanza bene. So che tutto procede. L’idee di perfezione è nemica della perfezione stessa, io ho la coscienza a posto, ho lavorato, lavoro e lavorerò sapendo di aver fatto le cose per bene».

Cosa cambia una volta mollati gli ormeggi?

«Dalla partenza in poi, quando i fattori da controllare e registrare diventano tanti, bisogna essere un po’ fatalisti: nè troppo conservativi nè troppo spinti, bisogna gestire con equilibrio la velocità della barca e gli sbalzi umorali. Gli up & down non sono positivi. Mi sono ripromesso di fare così. Ho navigato molto, ma questa è un’esperienza nuova, tanto lunga e con molte incognite».

Come si arriva alla scelta di partire soli, per fare un giro attorno al mondo, senza scalo e senza assistenza?

«Ci si arriva perché l’uomo segue le sue passioni. Io ho la passione per quel che faccio, è il mio sogno sin da ragazzo. Oggi si ha spesso l’impressione di aver fatto tutto, di non avere più frontiere da esplorare. Spero di battere il record del cinese Chuan, che però ha percorso meno miglia rispetto a quelle che mi attendono. Essere un possibile riferimento per il mondo, considerare l’aspetto pioneristico della traversata. Fa tutto parte di un gioco che può riservare anche molte sorprese».

Che sensazioni dà l’essere “Into the wild”?

«È l’aspetto affascinante, è la droga, pensi anche di essere un privilegiato. Sono esperienze lasciano tanti insegnamenti. Anche l’isolamento è importante. Sono lezioni che applichi allo sport, alla vita. Tutto ha un pro e contro. Ci vuole il coraggio di avere paura».

Cosa le mancherà in quei quattro mesi e mezzo?

«All’uomo mancano gli affetti, l'uomo è un animale sociale. Abbiamo bisogno degli altri. E poi il non potersi raccontare, o almeno il non poterlo fare di continuo».

I pericoli?

«Le insidie sono tante. Non tanto la paura, il buio, quanto le grandi onde dell'oceano del sud, le burrasche, il freddo».

Sapere di essere sotto monitoraggio medico aiuta?

«Alla fine il sostegno delle persone che hanno lavorato con me, è una motivazione in più. In uno sport come questo non hai il pubblico di una arena. L'idea di sapere che c’è qualcuno che, comunque, ti segue può aiutare molto».

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