La Nuova Sardegna

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Dalla panchina alla tavola, il percorso del gusto di Meo Sacchetti

di Roberto Sanna
Meo Sacchetti
Meo Sacchetti

Basket, cibo e vino: l’allenatore che ha portato la Dinamo allo scudetto nel 2015 racconta la sua vita in giro per il mondo. «Sono cresciuto al Nord tra funghi e tartufi, in Sicilia ho imparato a mangiare il crudo ma in Sardegna sono impazzito per gli spaghetti ai ricci, il mio piatto preferito»

04 giugno 2016
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SASSARI. Fatelo alzare dalla panchina e sedere a tavola, avrete le stesse soddisfazioni. Frutto di una lunga carriera su e giù per l’Italia e l’Europa, con qualche disgressione, obbligatoria per chi vive di basket, negli Usa. Meo Sacchetti, l’allenatore che ha portato la Dinamo allo scudetto e ora si prepara a vivere una nuova pagina professionale a Brindisi, ha coltivato con pazienza e passione l’amore per il cibo e il vino e discutere con lui di questi argomenti è divertente quanto parlare di sport. La sua vita professionale prima da giocatore e poi da allenatore gli ha dato la possibilità di girare il mondo e lui ha sempre cercato di approfondire le conoscenze, andando oltre l’aspetto puramente sportivo delle giornate: «Penso sia giusto – dice – cercare di capire dove sei, conoscere la gente e la cultura».

E anche la tavola: da dove nasce la sua passione per il cibo e il vino?

«È legata al basket. Ho cominciato a giocare seriamente a basket ad Asti, dove trovai un famoso allenatore ungherese, Lajos Toth. Il quale ci mise una regola ferrea: a tavola niente Coca Cola «ma vino perché è molto più salutare». Così sono entrato nel tunnel e non ne sono più uscito».

È nato in Puglia ma è cresciuto nel Nord Italia, i suoi gusti sono influenzati da quel tipo di cucina?

«Sicuramente una cucina riflette il clima del territorio, sono cresciuto con sapori forti come i tartufi e i funghi. Le zuppe? No, paradossalmente ho cominciato ad assaggiarle qui a Sassari perché le mangiava Caleb Green e mi incuriosiva. Ad Asti quel gruppo ci dava dentro seriamente. I dirigenti ci portavano spesso a mangiare insieme, finito l’allenamento ci convocavano come se dovessero dirci qualcosa di importante, invece una volta arrivati nel locale non succedeva nulla, alla fine capimmo che era semplicemente un modo per creare convivialità, stare insieme. A fine cena noi giocatori ce ne andavamo via e loro restavano lì. Il titolare ci raccontò che a volte quei dirigenti restavano a oltranza e allora lui, dopo aver fatto le pulizie, gettava le chiavi sul tavolo chiedendogli di chiudere la porta quando uscivano».

Innaffiava tutto con qualche bicchiere di Barolo?

«Ma quale Barolo, mica potevo permettermi certi vini. Bevevo Barbera e soprattutto Barbaresco, uno dei vini che più mi piace. Continuo a preferire il rosso al bianco e, rimanendo in Sardegna, il mio vino preferito è senza dubbio il Carignano del Sulcis. Lo preferisco anche al Cannonau, che pure qui è un caposaldo».

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Poi è andato a Bologna, altro posto dove c’è la cultura della buona tavola.

«Sono rimasto qualche anno e ho apprezzato molto quella cucina, spesso molto grassa e con tanti sapori. Anche a Bologna eravamo un bel gruppo, andavamo quasi ogni giorno a cena in un locale fuori città. C’era una signora che faceva delle cose buonissime ma, onestamente, dal punto di vista della pulizia e dell’igiene lasciava a desiderare. Una volta uscì dalla cucina lasciando la porta aperta e quello che vidi mi lasciò abbastanza perplesso. Da Bologna mi sono spostato a Torino, dove ho ritrovato la cucina piemontese, quindi a Varese dove però non c’è niente di particolare da segnalare».

Con la Nazionale ha girato parecchio, è stata una buona occasione per assaggiare le diverse cucine?

«No, eravamo molto controllati e mangiavamo da atleti. E poi il coach era Sandro Gamba, uno molto rigido, non era il caso di trasgredire».

Da allenatore si sarà rifatto: dov’è che si mangia bene fuori dall’Italia?

«In Francia sicuramente. E ricordo una paella buonissima a Siviglia dopo una partita di Eurocup. Negli Usa no, sono tremendi a meno che non gli dai della carne da fare arrosto. E lo stesso in Inghilterra».

Quando è diventato allenatore ha scoperto il Sud.

«All’inizio sono rimasto ad Asti e Torino, poi c’è stata la bella avventura in Sicilia, a Capo d’Orlando. La Sicilia è il posto dove ho imparato tre cose: a mangiare il crudo, a conoscere i gamberi rossi e a bere il caffè senza lo zucchero. Poi i dolci, inarrivabili».

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Da lì la Sardegna, dove alla fine ha preso casa e si è messo anche a produrre l’olio e il mirto: una rivoluzione.

«La Sardegna ho avuto modo di girarla bene. Sia con la Dinamo, sia per conto mio. Il primo anno non c’era mia moglie e non giocavamo nemmeno le coppe europee, così il lunedì prendevo l’auto e facevo lunghi giri, un giorno sono arrivato fino a Piscinas. Chiaro che ero stato qui di passaggio altre volte. All’inizio degli anni Ottanta venni per un torneo in estate, alloggiavamo all’Hotel dei Pini, sfruttammo l’occasione per un proficuo giro dei ristoranti della costa. In quell’occasione ho assaggiato l’aragosta: molto buona, specie alla catalana, ma preferisco sempre i gamberi. Quando poi sono venuto stabilmente le cose sono cambiate. Di fatto nel primo anno la mia casa era il ristorante di Tony, entravo in cucina, assaggiavo, controllavo. Una volta ho anche cucinato il risotto per tutta la squadra, mi hanno dato pure il grembiule col nome e il cappello da chef. Risotto alla birra, ma non è vero che so fare solo questo, chiedetelo a mia moglie».

E fra le tante cose quale vince la medaglia d’oro?

«I ricci sono stati una scoperta meravigliosa. O meglio, gli spaghetti ai ricci. Perché la polpa da sola, o nei crostini, non mi piace. Per gli spaghetti invece impazzisco, hanno un profumo e un sapore unico. Se un giorno dovessi fare il mio menù personalizzato il primo piatto sarebbe proprio questo. E ora dico una cosa che forse farà arrabbiare parecchia gente, ma io sono così, dico quello che penso: i migliori sono quelli di Domenico, al Pavone, nella piazzetta di Alghero».

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Ora è anche produttore di olio e mirto.

«Tutto per caso. Nella mia casa di Alghero ho una settantina di alberi di ulivo e il ragazzo che cura il terreno mi ha convinto a fare l’olio. Io pensavo fossero pochi, invece il primo anno sono stati centoventi litri e il secondo centocinquanta. E mi dicono che quest’ultimo sia molto buono, rispecchia il vostro gusto perché è forte e raschia la gola quando scende. Lo stesso ragazzo pensa anche al mirto, ho alcune piante ma tiro fuori al massimo un paio di bottiglie».

Adesso ritorna in Puglia, dove è nato e non ha mai vissuto: l’occasione per scoprire i sapori della sua terra.

«Ho già cominciato a frequentarla. Mi hanno portato a mangiare la burrata e devo dire che non mi ha impressionato. Poi sono stato in un ristorante di pesce e ho assaggiato una frittura molto buona. Sono nato ad Altamura ed emigrato a Novara quando avevo due anni, non conosco nulla della Puglia. E voglio scoprirla anche a tavola».

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