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Meo il “Cannibale” «Spero di restare»

di Andrea Sini
Meo il “Cannibale” «Spero di restare»

Dopo avere vinto tutto, Sacchetti attende lumi dalla società

29 giugno 2015
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SASSARI. Il sigaro di venerdì notte è stato il migliore di sempre, ed è stato l’ultimo. Tirate profonde, sotto il cielo dell’Emilia, per gustare meglio un successo storico. L’allenatore campione d’Italia ha smesso di fumare, ma non è un stato un voto, nè una scommessa. «No, me l’ha chiesto mia moglie Olimpia – sorride Meo Sacchetti –, era da un po’ che si lamentava. E questa mi sembra l’occasione giusta per smettere. Era buonissimo, ed è stato l’ultimo».

L’allenatore che ha portato Sassari a un tris da cannibali tira il fiato e prova a godersi il presente, anche se la sua posizione negli ultimi mesi è stata messa più volte in discussione dai vertici societari e il domani è tutto da scrivere.

Coach Sacchetti, avete vinto due coppe e uno scudetto, eppure il suo futuro sembra incerto.

«Io mi sento sempre in discussione. Sono sotto contratto per altri tre anni ma a questo punto è una questione di scelte, non certo mie. Nello sport è normale che a un certo punto le strade possano dividersi, o perché i risultati sono stati deludenti o perché, al contrario, sono stati centrati tutti gli obiettivi».

Nel suo caso, la seconda che ha detto.

«Non so, magari ci possono essere cose che non sono andate bene nel mio modo di essere o nella mia gestione. Ma io sono questo. In ogni caso sono qui e dopo i festeggiamenti parleremo con Stefano e i dirigenti e loro decideranno cosa fare».

Com’è stata la prima notte da campione d’Italia?

«Ho fumato quell’ultimo sigaro, si è fatto tardi, poi ho dormito tre ore. Quando mi sono svegliato ho bevuto un caffè con mia moglie. È stato un bel risveglio, non c’è che dire. Anche se questi successi si gustano meglio più avanti. Magari seduto in giardino, da solo, mi renderò conto meglio di cosa abbiamo fatto».

Nei giornali del giorno dopo non c’erano le solite critiche al suo gioco: la troppa libertà, troppi sprazzi, pochi schemi... Solo complimenti per la Dinamo e per lo stile Sacchetti.

«Alle critiche sono abituato. Il basket a mio parere si gioca in tanti modi, non in uno solo. C’è chi vuole il play, chi il centro di un certo tipo, chi corre e chi no. Ma se non ti piace quel basket puoi anche non guardarlo. Ora è tutto bello, certo, ma non sempre è stato così. In dieci mesi ci sono state tante partite, tanti viaggi, il ritmo dei playoff ti consuma. È stata un’annata faticosa, difficile, con tanti alti e bassi».

E con una costante: la Dinamo non ha fallito un solo obiettivo.

«L’abitudine a vincere maturata in questi anni ha fatto sì che in molti casi le cose venissero viste peggio di come erano in realtà. Non siamo stati costanti, è vero, ma c’erano aspettative altissime e nessuno nella storia ha mai vinto tutte le partite della stagione. A volte succede anche che si perda».

Lei non ha mai nascosto le difficoltà nel gestire un gruppo così particolare.

«Non è stato facile. Ogni giocatore ha il proprio ego e il suo modo di giocare. Abbiamo provato per tanti mesi a migliorare e limare certi aspetti, soprattutto legati alla lettura del gioco e delle scelte da fare. Invece alla fine hanno vinto loro, sono arrivati sino in fondo pur portandosi dietro certi difetti e certe amnesie. L’approccio di gara 7 a Reggio, con un primo quarto terribile, ne è l’esempio lampante».

A vincere, alla fine, è sembrata essere la grande voglia di non perdere che la squadra ha mostrato nei momenti topici della stagione.

«Proprio così. Questa è una squadra che incerte situazioni si stimolava in maniera importante e si metteva a giocare. Abbiamo chiuso la stagione regolare con 5 sconfitte di fila, e uno pensa che abbiano tirato i remi in barca. Poi perdi gara1 a Trento e due giorni dopo arriva la partita che secondo me ha fatto svoltare i nostri playoff. In semifinale abbiamo battuto Milano alla settima, e dopo quell’impresa non capisci se sei scarico fisicamente o mentalmente. Poi ti svegli e hai vinto lo scudetto. Una cosa è certa: abbiamo fatto di tutto per portarcelo a casa».

Siete stati anche fortunati?

«Certamente, la fortuna è una componente importante. La finale con Reggio è stata la nemesi della serie con Cantù di due anni fa: fattore campo incrollabile per 6 gare, e poi lo strappo decisivo nella bella».

Tra i sassolini che si è tolto dalle scarpe dopo gara7, c’è quello relativo agli italiani.

«A un certo punto è sembrato quasi che noi fossimo una squadra straniera e loro un team italiano. Io sono stato un azzurro, mio figlio è un italiano che gioca in serie A, figuriamoci se non mi piacciono i giocatori italiani. Ma quest’anno abbiamo fatto certe scelte, per avere un impatto fisico maggiore, soprattutto in difesa. La verità è che lo scudetto l’ha vinto Sassari e l’ha vinto la Sardegna».

Le dicevano che il suo basket si può giocare soltanto a “basso livello”.

«Con la mia pallacanestro ho vinto tutti i campionati, esclusa la B2. Così male non è, mi sembra».

A 62 anni, dopo avere vinto tutto in Italia, ha un sogno come allenatore?

«Mi piacerebbe allenare Varese e il Real Madrid. Nel primo caso ci sono andato vicino, nel secondo non credo che pensino a me... Ma a Sassari sto benissimo».

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