La Nuova Sardegna

Sassari

Nella lotta alla peste suina la Regione non è matrigna

Eugenia Tognotti

La feroce polemica sui siti individuati per seppellire le carcasse degli animali infetti deve far riflettere sul tasso di sfiducia nelle istituzioni e sulla disunione dei sardi

24 ottobre 2016
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Possiamo dircelo tra noi - anche rischiando di toccare nervi scoperti - che gli episodi di questi giorni, apparentemente marginali, della guerra totale ingaggiata dalla task force regionale alla peste suina - contribuiscono a fare ri-emergere gli aspetti profondi dell'esperienza storica di quest'isola e i nostri caratteri e difetti 'nazionali'? Parliamo del coro di proteste e critiche contro la Regione, sotto accusa per i criteri di scelta di due siti per lo smaltimento delle carcasse di animali abbattuti, non in quanto 'infetti', ma perché clandestini, allevati cioè al di fuori delle regole, giustamente rigide, imposte dal Piano di eradicazione di quel flagello. Non ci sono scappatoie. In questo la peste suina non differisce da quella umana che il mondo mediterraneo ha conosciuto per secoli.

Nel passato - durante le ondate epidemiche in cui era in gioco la vita di intere popolazioni - le autorità cittadine ordinavano di sparare a vista chiunque osasse attraversare i cordoni sanitari posti intorno alle città. Forzandoli, un solo malato o anche solo sospetto, e quindi possibile untore, poteva diffondere la malattia e la morte nelle popolazioni. Proprio grazie al cordone marittimo, formato da milizie armate, fornite da paesi e villaggi e distribuite lungo l'intero perimetro costiero, la Sardegna poté salvarsi, unica regione italiana, dalla prima ondata di colera arrivata in Europa e in Italia nel 1835-36. Nessuna imbarcazione con patente 'brutta', cioè proveniente da luoghi infestati, come la Liguria e la Toscana, dove l'epidemia faceva strage, poteva sbarcare sulla terraferma. Fatti, naturalmente, i dovuti distinguo di valori, di mezzi e di conoscenze, l'esito della guerra alla peste suina richiede la stessa inflessibilità e determinazione per vincere le resistenze alla messa a norma degli allevamenti. Esso dipende interamente dalla definitiva eliminazione degli allevamenti irregolari - primari centri di diffusione del virus - e dall'abbandono di pratiche di allevamento tradizionale che sembrano uscire direttamente dalle pagine dell'Odissea e dal racconto del porcaro Eumeo. Una volta individuati gli animali che possono rappresentare un pericolo, è necessario abbatterli e seppellire le carcasse. È quello che è avvenuto in questi giorni. I due siti scelti si trovano nelle campagne di Anela e nell'area demaniale del monte Sant'Antonio in territorio di Macomer, sottoposto a perizia geologica e all'interno di un vivaio dell'Agenzia Forestas, che si occupa, con altri Enti, del monitoraggio e della vigilanza del territorio regionale nell'ambito del Piano di eradicazione.

Ora, c'è qualcuno in Sardegna che può pensare che la Task Force della Regione e il Servizio veterinario regionale, impegnati in un poderoso sforzo per eradicare questo flagello, non abbia assunto ogni possibile precauzione e agito nella massima sicurezza? E come credere che l'amministratore unico di Forestas, prof. Pulina, ordinario di Zootecnia speciale, e con una vastissima esperienza di studio e di ricerca, abbia curato, con altri Enti, lo spostamento degli animali mettendo a rischio un luogo di particolare pregio ambientale? Eppure politici locali, protestatari di varia provenienza e persino figure istituzionali hanno alimentato un'infuocata polemica contro la Regione-matrigna, con burrascose dichiarazioni in cui comparivano termini come scandalo, 'irregolarità e illegalità'. Oltre all'accusa di destinare alcuni territori a cimiteri di suini. Evocando anche lo spettro della paura legata al trasporto di alcune decine di animali morti, considerati quasi alla stregua, quanto a pericolosità, di scorie nucleari. C'è di che riflettere. Sull'individualismo e sulla disunione che Emilio Lussu indicava come 'la nostra prima impronta'; sul tasso di sfiducia nelle Istituzioni e nella classe dirigente; sulla perdurante attitudine a considerare la Regione come controparte, piuttosto che come 'casa comune'.

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