La Nuova Sardegna

Sassari

Razzismo a Monte Rosello: "Il campo da calcio ai sassaresi, via i negri"

Luigi Soriga
Il campetto di calcio di via Manzoni (foto Mauro Chessa)
Il campetto di calcio di via Manzoni (foto Mauro Chessa)

E' allarme per le parole scritte sul muro contro i migranti che hanno giocato una partita di calcio nella struttura della scuola. La preside Rita Spanedda prende posizione: "Io penso che quel campetto possa diventare occasione di inclusione sociale". Il sindaco Nicola Sanna: "Quella scritta è un gesto incivile"

28 settembre 2016
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SASSARI. Il campetto di calcio di via Manzoni per i migranti è l’unico luogo dove le lancette del tempo girano per davvero. La loro esistenza in stand-by, a mollo nella noia in h24, in quel rettangolo verde riprende a pulsare. Ieri pomeriggio continuavano a rincorrere allegramente un pallone lasciando fuori dalle recinzioni tutto: il degrado, il malessere, e un quartiere che li guarda in cagnesco. Non avevano la più pallida idea che il razzismo e i pregiudizi avessero imbrattato anche quella piccola oasi di pace. «Il Monte ai Sassaresi. Non vi vogliamo: fuori i negri». E a fine partita loro sono in posa come la squadra di calcio più sgangherata del pianeta, ognuno con una maglietta e una storia diversa dall’altra, e sullo sfondo, impregnata sul muro, quella frase intrisa d’odio.

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Ciò che accade nell’istituto comprensivo e nel quartiere di Monte Rosello Alto, è tutto distillato nella foto. C’è un rione che annaspa nel disagio, c’è un centro di accoglienza per migranti germogliato nel degrado, e c’è un campetto di calcio dove si sta giocando una partita più importante della Champions. In palio c’è l’integrazione, l’accoglienza, e la civiltà. Ora il sindaco Nicola Sanna dice: «È un gesto incivile e razzista. Faremo subito cancellare la scritta». Ma la dirigente scolastica Rita Spanedda ha un’altra idea: «Sto pensando di lasciare tutto così per un po’. Voglio che la leggano tutti in modo che sia chiaro sino a che punto possa arrivare la pochezza di certe persone. Sono una ristretta minoranza e non fanno paura. La mia scuola e anche questo quartiere, la pensano diversamente».

Il palazzo lager. In via Planargia, a 400 metri da quel campetto, c’è un palazzo fatiscente che si regge in piedi sfidando ogni giorno le leggi della fisica. Da otto mesi è stato trasformato in un centro di accoglienza per migranti. All’inizio conteneva 90 ospiti, ora gli inquilini sono raddoppiati. E quell’edificio è una pentola a pressione pronta a esplodere. Perché le stanze dove dormono questi ragazzoni di 20 anni ricordano le cuccette della Tirrenia di 30 anni fa, con spazi vitali claustrofobici. Anche quattro letti a castello in una manciata di metri quadrati. Una costrizione che fa venire in mente certi allevamenti intensivi di animali. E poi non hanno una tv. Non hanno soldi. Non hanno una dama o un mazzo di carte. Non hanno una sala ricreativa. Non hanno cibo a sufficienza per sfamare 80 chili di muscoli ed esuberante giovinezza. Hanno indosso dei vestiti e un solo cambio.

Sono solo numeri incastonati dentro le caselle di un business. E le cifre sono queste: 35 euro per ogni migrante, un contributo erogato alle cooperative locali dalla Comunità europea. Poi bisogna sottrarre il ticket (paghetta) giornaliero di 2,5 euro e le spese per i tre pasti. Il resto sono costi di pulizia, affitto e stipendi del personale. Ma 35 euro per 179 migranti sono 6265 euro al giorno. Solo nell’ultimo mese i gestori hanno incassato 188mila euro. Quanto pagheranno per l’affitto di quello stabile degradato? Quando costano i piatti incellophanati ogni giorno da una mensa? Quanto viene speso per l’accoglienza e quanto resta in tasca alla cooperativa? Perché poi il malessere di 180 migranti non resta confinato dentro le quattro mura scrostate: tracima per le vie, si spande nel quartiere, dove questi ventenni avvizziscono nella noia trascorrendo le ore come se fossero pensionati. Seduti sulle panchine, parcheggiati su muretti o ciabattando per strada. Oppure cercando disperatamente una forma di svago in mezzo al niente, o un’oasi di divertimento come un campo di pallone.

Il campetto conteso. E la storia è proprio questa, e la colpa è di una sfida mancata: se si fosse disputato il match Africa-Sassari, non ci sarebbero stati problemi. Invece quel pomeriggio il campetto della scuola era occupato da una trentina di migranti che giocavano tra loro. Una squadra di ragazzini del quartiere, dai 10 ai 13 anni, aveva voglia di fare due tiri. Speravano che i migranti migrassero anche dal campetto, ma niente da fare. E allora hanno chiamato mamme e nonne, le quali a loro volta hanno chiamato i vigili urbani, i quali hanno chiamato la preside. Il nodo da sciogliere è questo: qual è la regola del playground scolastico? Si fosse trattato di un semplice campetto di strada ci sarebbe stato poco da discutere: chi prima arriva, gioca. Ma essendoci di mezzo degli extracomunitari, la faccenda si complica, e subentrano altre regole. Come il chilometro zero e il diritto alla precedenza dei sassaresi. «Il campetto è stato realizzato per i nostri figli, e ci devono giocare loro».

Ai vigili viene in salita fare da arbitro, visto che le precedenze del codice della strada poco ci azzeccano con le regole di un campetto. E allora a fare da giudice in questa strana disputa ben poco sportiva e scolastica, ma più culturale e sociale, si ritrova una preside. La quale decide di tirare in ballo il regolamento più antico ed appropriato del mondo, che vale per tutte le latitudini, religioni e razze: ovvero il buon senso. E poi le regole dell’amicizia, dell’inclusione, dell’accoglienza e dell’integrazione. «Io non mi sento di cacciare nessuno – ha detto Rita Spanedda – anzi tolgo le sbarre ai cancelli e apro questo spazio con i muri dipinti con i colori dell’arcobaleno a tutti gli abitanti della città e del quartiere. Compresi gli immigrati». Ma la tolleranza non è un seme che germoglia istantaneo. E la risposta è l’inchiostro nero della xenofobia sui colori dell’arcobaleno.

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