La Nuova Sardegna

Sassari

PARLIAMONE. La Polizia di Stato e i solidi anticorpi della legalità contro la corruzione

di Daniela Scano
Operazione della squadra Mobile
Operazione della squadra Mobile

Il complesso lavoro di indagine svolto "in casa" dalla squadra Mobile sassarese sugli assistenti capo della sezione Volanti conferma che non ci sono aree di impunità. Per i suoi colleghi, chi indossa la divisa è un cittadino come tutti gli altri

21 agosto 2016
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In questa brutta storia di poliziotti accusati di corruzione, la Polizia di Stato ha eseguito le indagini fin dall’inizio e dopo gli arresti dei presunti responsabili ha scelto la linea del silenzio. La notizia della inchiesta e della sua clamorosa svolta è stata data ai mezzi di informazione dal procuratore Gianni Caria con un comunicato che contiene l’unica dichiarazione ufficiale sulla vicenda. La nota si conclude con i complimenti del capo della Procura alla squadra Mobile diretta da Bibiana Pala «che ha condotto le indagini – sottolinea il magistrato – in un clima di comprensibile difficoltà ambientale».

In questa frase c’è molto ma forse non tutto per capire quanto sia stato complicato, per il personale della questura, scandagliare per due anni la vita e le azioni di compagni di lavoro che non dovevano rendersi conto che erano sotto inchiesta. Poliziotti che dovrebbero far rispettare la legge e che invece sono sospettati di averla violata, con un arrogante senso di onnipotenza dato dal proprio ruolo. Accuse gravissime che adesso saranno sottoposte al vaglio dei giudici, nel rispetto del diritto della difesa degli indagati.

È significativo il fatto che il capo della Procura sassarese abbia, nel dare la notizia dell’indagine, voluto sottolineare «il vivo apprezzamento per l’ottimo lavoro investigativo di tutto il personale della Mobile e la piena collaborazione fornita dal precedente e dall’attuale questore di Sassari». Non si tratta di un semplice plauso alle capacità investigative della squadra diretta da Bibiana Pala, significa rimarcare che la Polizia è stata attaccata da un virus ma che ha forti anticorpi della legalità per neutralizzarlo.

Il procuratore ha ragione. Quando un rappresentante delle forze dell’ordine commette un reato (o come in questo caso, è sospettato di averlo commesso) provoca anche un danno di immagine alla istituzione che in un certo senso nel suo piccolo rappresenta. Sono i danni collaterali ai baluardi della legalità che possono essere scalfiti da episodi come questo ma che restano integri, come ha ricordato il procuratore nel suo messaggio, quando al loro interno ci sono uomini e donne come quelli della squadra Mobile di Sassari e tanti altri come loro.

Il lungo lavoro di indagine svolto “in casa” nella questura sassarese prova alcune cose solo apparentemente scontate. La prima è che chi porta la divisa è un cittadino come tutti gli altri, e quando sbaglia viene perseguito. La seconda è che non ci sono zone franche per l’illegalità, ma eventualmente uomini e donne che commettono reati. Persone che agiscono ovunque, anche nelle questure e nelle caserme, ma che quando vengono scoperte pagano il prezzo del proprio crimine. La terza è che per chi indaga non fa alcuna differenza se i sospettati sono compagni di lavoro o privati cittadini. Il quarto concetto, forse il più importante, è che bisogna avere fiducia nelle forze dell’ordine che sono istituzioni dove lavorano persone che non “sono” le istituzioni.

Le indagini della squadra Mobile hanno dimostrato ancora una volta che gli anticorpi della legalità sono più forti del virus della corruzione. Per combatterlo i poliziotti hanno indagato due anni sui altri poliziotti ascoltando le loro telefonate e le loro conversazioni private, piazzando microfoni nelle stanze della questura e nelle auto di servizio, ma anche continuando a far finta di niente affinché gli indagati non si insospettissero. È stata dura, come il procuratore fa capire nel suo comunicato. Mai, nella indagine su questa brutta storia, qualcuno degli investigatori ha preso sottogamba le accuse o ha pensato che una relazione di servizio o la parola di un assistente capo della Polizia valessero più dei sospetti di un privato cittadino.

La lezione di questa brutta storia è che non ci sono aree di impunità, non ci sono protezioni, nessuno può contare di farla franca, meno che mai in una questura o in una caserma.

Questo rafforza la fiducia alle istituzioni e la speranza che continuino a restare integre anche quando, comunque si concluderà, il terremoto della inchiesta su poliziotti accusati di essersi fatti corrompere perché avidi di soldi sporchi sarà stata dimenticata da un pezzo.

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