La Nuova Sardegna

Sassari

L’AMBIENTE FERITO

Olbia città sott’acqua, tutto come previsto. Da almeno trent’anni

Antonello Sechi
Olbia città sott’acqua, tutto come previsto. Da almeno trent’anni

06 ottobre 2015
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Non c'è giustificazione: il ponte sul rio Siligheddu, in gran parte responsabile dell'ennesima alluvione a Olbia, andava buttato giù e rifatto diversamente nel 2013, dopo la tragedia del 18 novembre. Dire che dura lex sed lex ovvero che il ponte doveva essere rimesso a posto esattamente com'era non sta in piedi. Nessuna legge, nessun burosauro comunale o della Protezione civile può obbligare un sindaco a fare qualcosa che mette in pericolo i suoi cittadini. Il rischio costituito dal ponte era noto? Un amministratore deciso a farsi valere avrebbe preso il piccone in mano e sfidato le procedure sbagliate. Detto questo, visto che dopo il rio Siligheddu esondano anche i fustigatori immemori, è il caso di fare un breve ripasso.

Alcuni degli indignati che adesso bacchettano questo sindaco sfortunato sono stati a suo tempo amministratori comunali. Altri sono stati cantori interessati o quantomeno osservatori distratti di sindaci, assessori e consiglieri comunali che a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso hanno permesso, favorito o incentivato il sacco della città.

Era l'epoca del "Klondike" gallurese, del boom turistico ed edilizio sbarcati con l'Aga Khan e andati avanti per fatti loro. La "corsa all'oro" in versione olbiese era tumultuosa: la città si riempiva ogni giorno di gente nuova alla ricerca di un lavoro o di un'occasione. Migliaia di persone.

È vero: la città e gli amministratori nati e cresciuti nella vecchia e sonnacchiosa Terranova forse non avevano la "cultura" per capire e governare un fenomeno così potente e rapido. Ma non ci hanno nemmeno provato: hanno preferito sistemarsi. C'erano terreni da lottizzare, progetti da fare, mattoni da vendere per migliaia di case, in città e al mare. Un allegro baccanale al cemento dove pochi facevano notare che si costruiva senza regole e nei posti sbagliati. Non chiedevano il blocco dell'edilizia ma ordine e legalità: venivano ignorati o bollati come nemici di Olbia e dello sviluppo.

Eppure l'esempio da seguire ce l'avevano tutti davanti agli occhi e sotto i piedi: l'Olbia antica, costruita lontano dalle paludi, che emergeva dagli scavi degli archeologi, peraltro guardati malissimo per aver fermato qualche ruspa. Bene: quella parte della città, le inondazioni del 2013 e del 2015 non l'hanno nemmeno sfiorata.

La corsa al cemento senza regole è andata avanti per decenni. Tanto c'è sempre stata una nuova sanatoria a sistemare le cose anche dal punto di vista "legale": qualche soldo e tutto tornava a posto, dalla casetta che il povero diavolo era riuscito a comprare con sacrificio nella lottizzazione a pochi metri dal canale, alla super villa del premier lungo la costa. Ora per i poveri diavoli è arrivato il conto.

Certo, il global warming e i cicloni prossimi venturi all'epoca erano solo minoritarie paranoie ambientaliste. Gli ambientalisti hanno visto giusto. Ma davvero erano così "avanti"? A Olbia è mancato il semplice, banale, antico buonsenso: non si costruisce lungo i fiumi e nelle zone a rischio. E oggi tutti a contare i danni (per fortuna senza vittime, almeno stavolta), a gridare governo ladro, a battere cassa, sport nazionale di un paese dove la colpa è sempre degli altri e nessuno si assume responsabilità.

Ora Olbia è quello che è. Non si possono radere al suolo interi quartieri, servono interventi che impediscano nuove tragedie. Ma è facile immaginare che ci sia chi è già pronto ad approfittarne. Tra progetti, meglio se faraonici, appalti e tutto il resto, l'alluvione rischia di diventare il solito affare. I fustigatori dell'ultim'ora dovrebbero cominciare ad aprire gli occhi da subito senza aspettare qualche decennio come hanno fatto finora: i soldi in qualche modo arriveranno, spenderli bene o male non è indifferente.

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