La Nuova Sardegna

Sassari

I minatori di Olmedo: «La nostra lotta nel buio a 180 metri di profondità»

di Luigi Soriga
I lavoratori della miniera di Olmedo barricati a 180 metri di profondità
I lavoratori della miniera di Olmedo barricati a 180 metri di profondità

La protesta estrema dei dieci lavoratori barricati nel giacimento di bauxite: «Risaliremo solo con un posto di lavoro in tasca»

01 ottobre 2015
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OLMEDO. C’è un esperimento che i minatori fanno con gli abitanti della superficie. Funziona sempre. «Hai presente cosa sia il buio? – dicono – Ma non quello di casa, quando spegni la luce. Il BUIO: quello vero».

Il fuoristrada è già scivolato per tre chilometri nella pancia della miniera di bauxite. A un certo punto lascia il tunnel principale, percorso dal nastro trasportatore e illuminato. Sterza dentro un budello più angusto, dove la cappotta sfiora il tetto. L’auto si ferma, fari spenti. Le rasoiate luminose delle torce frontali sembrano degli occhi di bue su un palco deserto. Poi si spengono anche quelle, e la miniera ti inghiotte.

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«Ora fai silenzio e trattieni il respiro». Eccolo il BUIO. Ha una densità fisica, una coperta nera che quasi si può toccare. Non vedi a mezzo centimetro, non esiste un rumore, tutto è cancellato. Forse solo la morte è capace di un simile reset sensoriale. «Concentrati, guarda che qualcosa si sente». È un rivolo d’aria quasi impercettibile, una carezza che arriva inaspettata, un soffio di vita che ti dice che in questo dedalo sotterraneo, da qualche parte esiste una via d’uscita.

Ecco perché la definiscono una protesta estrema: il presidio dei dieci operai a - 180 metri è qualcosa di inumano. Non c’è differenza tra il giorno e la notte, non ci sono suoni che scandiscono le ore, i bioritmi non hanno appigli. I cellulari sono schermi muti, e l’unico contatto con il mondo è un cordless wifi. Dall’altra parte, ci sono gli altri venticinque operai della società greca S&B, tutti in mobilità, tutti senza stipendio, e tutti disposti a difendere il proprio lavoro con i denti. I colleghi di superficie, per quelli del sottosuolo, sono come un metronomo: «Stamattina gli abbiamo portato il caffè e le paste. Poi a pranzo riscendiamo con i piatti preparati dalle mogli. Poi un’altra visita di pomeriggio e anche per la cena».

Questa è la scansione del tempo, l’unico filo in grado di cucire viscere e pelle. «Da qui sotto non ce ne andremo finché in Regione non verrà firmato un protocollo di intesa che garantisca l’inquadramento professionale di ciascuno di noi – dicono i minatori – parole e promesse in questi mesi ne abbiamo sentito sin troppe».

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Ma era aprile, c’erano le amministrative nell’aria, e tutti i politici, dal consigliere comunale, a quello regionale, sino al parlamentare o senatore hanno calcato la passerella di Olmedo. «Poi però sono spariti, e con loro i buoni propositi». La notizia del licenziamento, il direttore Marco Aurelio Bonansea l’aveva data così: «Me lo ricordo bene – racconta Nando – l’8 aprile era il giorno del mio compleanno. Ci ha detto, testuali parole: “Finalmente conosciamo la volontà della S&B: da domani siete tutti licenziati”. E sottolineo la parola “finalmente”». Da quel momento è cominciata la vertenza e l’occupazione del giacimento e degli impianti: prima alla luce del sole, poi anche nel profondo.

A meno 180 non c’è freddo, c’è una climatizzazione naturale a 20 gradi costanti. Però l’umidità impregna i vestiti e le ossa. Per questo i dieci minatori hanno scelto di dormire nel vecchio deposito degli esplosivi, perché tra tutti i cuniculi quello è l’anfratto più asciutto. Riposano 4 ore a notte, su delle brandine. Per il resto chiacchierano, suonano la chitarra, raccontano barzellette e pensano alle famiglie lassù. Uno ha un figlio di tre anni: «È la cosa che mi manca di più». Ma per il posto di lavoro sono disposti a rinchiudersi dentro questo pozzo scuro.

«È un mestiere particolare, diverso. Ti porta a essere una squadra affiatata e poi una grande famiglia, perché in ogni momento hai nelle tue mani la vita degli altri. Qui sotto uno sbaglio si paga caro». Certo ci sono i mezzi meccanici, non si scende giù piccozza ed elmetto, ma si maneggia sempre l’esplosivo: «Quello è il momento di massima adrenalina. Fai i buchi nella parete, carichi 60 chili di plastico, e poi ti allontani 100 metri nascondendoti in una galleria laterale. Altrimenti l’onda d’urto ti spazza. E anche se sei al riparo dietro un angolo, lo spostamento d’aria di porta via il caschetto». C’è chi è stato assunto nel ’91, e ha visto srotolarsi le gallerie sino a un labirinto di 50 km. Lo conosce palmo a palmo, saprebbe risalire a occhi chiusi. Ormai ascolta e capisce la miniera: «Perché la maniera ti parla e tu diventi un gatto, con i sensi a mille». E se senti “crack” hai un paio di secondi per scappare da una tonnellata di parete che sta crollando. E’ un lavoro rischioso. Ma anche se esiste il vecchio detto, “sempre meglio che in miniera”, loro se ne infischiano: il loro mestiere non lo scambierebbero.

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