La Nuova Sardegna

Sassari

Negato a Barranca il “dovere del dubbio”

di Daniela Scano
Negato a Barranca il “dovere del dubbio”

Le motivazioni della Cassazione: ecco perché la corte d’appello di Cagliari avrebbe dovuto assolvere il pastore di Sedilo

16 giugno 2015
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SASSARI. I giudici della corte d’appello di Cagliari non hanno osservato fino in fondo il “dovere del dubbio” e la presunzione di innocenza dell’imputato quando, il 15 febbraio 2013, hanno condannato a 17 anni di reclusione Natalino Barranca, 74 anni, il pastore di Sedilo coinvolto nell’inchiesta sul sequestro dell’allevatore di Bonorva Titti Pinna. La sentenza evidenzia «il travisamento di elementi decisivi e numerosi salti logici, in presenza di una ricostruzione alternativa proposta dalla difesa che trova riscontri nelle risultanze processuali e appare perciò plausibile». Lo affermano i giudici della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui, il 12 marzo, hanno annullato senza rinvio la sentenza dei giudici cagliaritani e hanno assolto definitivamente l’anziano pastore «per non avere commesso il fatto».

La sentenza del 2011. Il verdetto della sesta sezione penale della Suprema Corte riporta le lancette dell’orologio processuale al 10 gennaio 2011, quando la corte d’appello di Sassari aveva assolto Barranca. «La partecipazione di Natalino Barranca al sequestro di Titti Pinna non può essere affermata al di là di ogni ragionevole dubbio – avevano scritto i giudici – in considerazione del materiale probatorio raccolto, che si presenta contradditorio e/o insufficiente». In altre parole, nelle carte processuali non c’erano prove per dimostrare, come invece ha sempre sostenuto la Dda, che Barranca non poteva non sapere che Titti Pinna venisse tenuto prigioniero nella “tana di paglia” ricavata nel fienile dell’ovile di Salvatore Atzas (condannato a 30 anni). Quella sentenza assolutoria, sollecitata dal pg Claudio Lo Curto, era stata impugnata dall’allora procuratore generale Ettore Angioni. La Cassazione aveva accolto il ricorso rinviando il caso a un altro collegio che aveva condannato l’imputato.

Il ricorso della difesa. Ora però la Cassazione, che ha esaminato il ricorso dell’avvocato Pasqualino Federici, riafferma gli stessi principi espressi dai giudici sassaresi e dice che gli indizi a carico di Natalino Barranca possono, e anzi devono, essere letti con le lenti del ragionevole dubbio e della presunzione di innocenza. Inforcando questi occhiali, al collegio giudicante appare chiaro che il pastore potesse essere ignaro della presenza di un uomo in catene nell’ovile di Atzas. Un ovile che Barranca frequentò per un mese, nella fase conclusiva della prigionia di Titti Pinna, per il tempo strettamente necessario a mungere le pecore del compaesano, che subito dopo lo riaccompagnava in paese. Per i giudici è plausibile che il settantenne non si accorse di nulla, come del resto le altre persone che frequentarono l’ovile in quel periodo, compresi il figlio di Atzas e perfino i carabinieri che ispezionarono l’azienda di Atzas il 12 aprile 2007.

«Non era il vivandiere». La Cassazione considera «illogica e fondata su una inesatta percezione delle emergenze probatorie» la sentenza di condanna là dove ritiene che Barranca avrebbe aiutato Atzas nella preparazione dei pasti per Titti Pinna. «Risulta infatti – scrive il collegio – che la somministrazione del cibo all’ostaggio avveniva, anche nell’ultimo mese della prigionia, due ore prima della mungitura, in occasione della quale egli sentiva arrivare una macchina. Viceversa, in occasione dell’unico pasto quotidiano, l’ostaggio non sentiva il rumore della macchina e della mungitura, nè le voci dei carcerieri».

Le tracce di Atzas. «Non solo le stesse dichiarazioni di Pinna fanno escludere che Barranca si trovasse nell’ovile al momento della preparazione e somministrazione dei pasti – spiegano i giudici –, ma all’interno dell’angusto vano prigione, costruito intorno al sequestrato dopo il suo prelievo, sono state trovate tracce genotipiche e papillari riferibili ad Atzas e ad altre persone rimaste ignote. Mentre non è stato rilevato alcun segno genetico o di altro tipo riconducibile a Barranca». Questo ed altri elementi, secondo la Cassazione, avrebbero dovuto indurre i giudici di secondo grado a esercitare il “dovere del dubbio”. «A fronte di un compendio indiziario suscettibile di opposte ed empiricamente plausibili letture – è la conclusione –, il criterio del ragionevole dubbio si salda alla presunzione di innocenza e impone come l’unica e razionale la decisione di assoluzione dell’imputato per non avere commesso il fatto».

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