La Nuova Sardegna

Sassari

Morì dissanguato, i medici si difendono

di Nadia Cossu
Morì dissanguato, i medici si difendono

Tre chirurghi indagati per omicidio colposo mostrano al giudice le foto dell’intervento: «Protocollo seguito alla perfezione»

25 ottobre 2014
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SASSARI. Quel giorno i chirurghi osservarono alla perfezione le norme previste dal protocollo, furono costretti ad asportare dalla base la cisti di echinococco nel paziente perché c’era un sanguinamento in atto. In aula hanno anche prodotto i loro curricula dai quali è emersa – contrariamente a quanto viene contestato dalla Procura – un’esperienza consolidata in interventi di quel tipo: ben 12 sui 14 registrati in dieci anni nel nord Sardegna sono stati eseguiti proprio da Salvatore Denti e Fabrizio Scognamillo, chirurghi delle cliniche universitarie di Sassari che oggi si trovano indagati per omicidio colposo dopo la morte di un paziente di Ozieri operato per l’asportazione di una cisti e deceduto subito dopo per uno choc emorragico. Insieme a loro è finito nel registro degli indagati anche il primario Mario Trignano che secondo l’accusa non avrebbe monitorato con la sua presenza fisica le fasi più critiche dell’intervento.

L’operazione risale al 24 ottobre del 2011. Un allevatore 55enne di Ozieri, Mario Tanda, venne ricoverato nell’unità di Patologia chirurgica delle Cliniche per l’asportazione di una cisti di echinococco di dieci centimetri vicina al fegato e ormai vecchia e calcificata. Una cisti che Tanda aveva scoperto per caso: un anno prima era caduto mentre lavorava e aveva fatto una radiografia lombare. All’esito dell’esame i medici avevano notato una macchia scura che era poi stata diagnosticata come cisti benigna. L’allevatore aveva deciso di operarsi per rimuoverla e quel giorno di ottobre in sala operatoria c’erano Salvatore Denti, primo chirurgo, e il suo aiuto Fabrizio Scognamillo. L’intervento all’inizio andò bene, furono le complicanze a rilevarsi devastanti. Una emorragia “catastrofica”, durata quattro ore, che gli portò via 9 litri di sangue e che soprattutto mandò il paziente in uno stato di coma irreversibile.

Il consulente del pubblico ministero – Rita Celli – stabilì in una dettagliata relazione che il comportamento imprudente dei medici: «Un rapporto di causa – scrisse la Celli – tra la loro condotta e il decesso di Mario Tanda». In sintesi: quella cisti non doveva essere asportata radicalmente ma solo parzialmente decapitata. Era calcificata, morta. Ma soprattutto era localizzata vicino al fegato, a contatto con grossi vasi sanguigni, in una zona difficilmente aggredibile.

Ieri però i chirurghi hanno avuto modo di difendersi davanti al gup Grotteria che all’esito dell’udienza preliminare deciderà se rinviarli o meno a giudizio. I medici, assistiti dagli avvocati Stefano Carboni, Antonello Urru e Pietro Piras hanno prodotto le fotografie – con la data – dell’intervento eseguito su Tanda tre anni fa dalle quali emergerebbe chiaramente che l’asportazione della cisti fu effettuata per arginare il sanguinamento che si verificò nella base terminale (la cosiddetta “scodella”). Non ci fu dunque alcuna imperizia o negligenza da parte dei chirurghi. Il legale Stefano Carboni ha poi sottolineato davanti al gup come la consulenza di parte affidata dal pubblico ministero alla dottoressa Celli sia stata in realtà «soltanto scritta da quest’ultima che, va ricordato, non è un chirurgo ma un medico legale. E infatti delegò come ausiliario la dottoressa Chiesa, un chirurgo generale che abbiamo appurato avere una pratica operatoria pari a zero». Ecco perché la difesa ha chiesto al giudice di disporre una perizia super partes in grado di accertare se la tesi della Celli possa reggere o meno. Il gup Grotteria si è riservato e deciderà nell’udienza del 18 novembre. Sempre ieri si è costituito il legale Lorenzo Galisai a tutela della Azienda ospedaliera universitaria che è stata chiamata come responsabile civile su richiesta dell’avvocato Antonio Secci che tutela i familiari della vittima.

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