“Amici di Sassari” racconta storie di carcere e case chiuse
La rivista ideata da Benito Olmeo è stata pubblicata on line ma gli appassionati lettori possono chiederne una copia anche nell’edicola di viale Dante
Amici di Sassari. Lo si può essere in tanti modi. Del resto, in una città come la nostra, che sembra pigra ma cova sotto la pelle risentimenti e invidie, già non essere suoi nemici è quasi grasso che cola. Torniamo agli amici. C’è un gruppo, su Facebook, che ha un nome come questo (ho perso gli appunti, accettate l’approssimazione), che raccoglie e pubblica ricordi e foto della Sassari di un tempo. Ora ha affidato alla Rete perfino un rivista di 64 pagine. Non ho sottomano la rivista, e dunque non posso darne il sommario completo: e neppure il titolo, che comunque ha il nome di Sassari in ditta, facile da recuperare.
L’idea – mi dice il mio indefettibile amico Tore Sanna – è stata di Benito Olmeo, titolare di una edicola in viale Dante, praticamente all’angolo con via Torres. Il nome e l’indirizzo di Benito sono fondamentali perché, seguendo il trend imperante nella comunicazione di oggi (e di domani), la rivista esce solo on line. Ho detto “solo”, ma ho sbagliato: perché Benito ne stampa alcune copie cartacee che affida poi a chi volesse gustarle e conservarle in quella veste, forse da buon edicolante diffidente di queste parole e immagini affidate a qualche aerea Silicon Valley e più tranquillo, invece, quando si appoggia alla buona, antica carta figlia della cellulosa: verba volant, anche quelle di Facebook, scripta manent presso l’edicola di viale Dante. Torno al sommario. Quella che in America chiamerebbero la cover story, cioé l’articolo più importante, è dedicato alle carceri: quelle dove giacevano in profonde caverne i prigionieri di San Leonardo, a qualche passo dal patibolo dove il boia li avrebbe impiccati e squartati, quelle dove dal 1861, sotto il patronato di San Sebastiano, si sarebbe cercata una condizione più civile, e quelle appena inaugurate giù a Bancali, dove chi ci càpita dovrebbe avere il diritto di sperare di starci un po’ meglio.
Il secondo articolo è dedicato a quelle che nessuno, in nessuna parte d’Italia, ha mai chiamato, sino al 1958, “case di tolleranza”: avevano un altro nome più corrente e tolleranza garantita dallo Stato (ne fa memoria visiva un indimenticato bozzetto di Paolo Galleri dall’indimenticabile titolo, “Vicolo delle canne”).
Il terzo articolo è una lunga e affettuosissima rievocazione di Gino Ruzzetta, praticamente il Sardus-sacerensis pater della nostra canzone popolare. Andate da Benito, chiedete e vi sarà dato.