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Due preti del Sassarese ancora vivi per miracolo

Due preti del Sassarese ancora vivi per miracolo

OSILO. Nonostante siano trascorsi 40 anni da quei tragici avvenimenti, si commuove ancora fino alle lacrime, Giuseppe Murineddu – il prete della diocesi di Sassari che insieme a Tore Ruzzu si trovò,...

07 gennaio 2014
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OSILO. Nonostante siano trascorsi 40 anni da quei tragici avvenimenti, si commuove ancora fino alle lacrime, Giuseppe Murineddu – il prete della diocesi di Sassari che insieme a Tore Ruzzu si trovò, all’epoca del colpo di Stato, in Cile per una azione missionaria. «Arrivammo in Cile il 29 giugno del 1973 – ricorda Giuseppe Murineddu – e da subito il nostro battesimo cileno fu completo: quel giorno ci fu il tentativo di colpo di Stato da parte dei reparti corazzati dell’esercito, chiamato “il giorno del tancazo” (da “tanque”, carro armato)”. I due sacerdoti sardi erano partiti animati dalla volontà di ricerca di una nuova evangelizzazione, così come scaturita dal Concilio Vaticano II, che si intrecciava con i grandi fermenti socio-politici dell’Italia di quegli anni a ridosso del ’68. Avevano allora maturato il desiderio di servire la Chiesa del Terzo Mondo, e nel 1972, l’allora arcivescovo di Sassari, monsignor Paolo Carta, li autorizzò per una esperienza missionaria in America Latina. Così, dopo il corso di formazione a Verona, nel giugno del ’73 si ritrovarono nel pieno della bolgia cilena. “Avevamo scelto per la nostra missione la diocesi di Copiapò – dice Giuseppe Murineddu – una città nel deserto di Atacama, nel Nord del Cile, a circa 800 km da Santiago – e lì, dopo un periodo di “rodaggio”, ci vennero assegnate due parrocchie di periferia. Si trattava di una delle zone minerarie più importanti del Cile – ricorda ancora Murineddu - dove la miseria regnava sovrana». Là si dispiega la catechesi dei due sacerdoti sardi, che si sviluppa sia sul versante religioso che su quello della solidarietà, con il sostegno alle famiglie povere, le visite alle persone sole, le colonie estive per i bambini, la mensa popolare. Ma la loro opera si rivolge anche ai carcerati, alle vittime del regime, alle famiglie degli scomparsi. Tore Ruzzu, in particolare, venne nominato responsabile della diocesi per l’aiuto alla ricerca delle persone scomparse o carcerate. Così i due sacerdoti si trovano in una posizione sempre di più di frontiera, a contatto diretto con le sofferenze e con le atrocità di quei giorni, pienamente coerenti con il messaggio evangelico, ma per ciò stesso percepiti come oppositori di fatto al regime. “Presero a infiltrare le loro spie ai nostri incontri – ricorda Giuseppe Murineddu – e il clima generale divenne sempre più pesante. Noi resistemmo per circa due anni grazie all’appoggio incondizionato di quel grande vescovo che fu don Fernando Ariztìa, ma quando anch’egli divenne un bersaglio dei militari, la situazione non poteva non precipitare. Così – prosegue Murineddu - non fummo granché sorpresi quando l’8 novembre del 1975, alle 6,20 del mattino, gli agenti dei servizi segreti militari si presentano nella nostra casetta alla periferia di Copiapò, e “trovano” un libretto rosso di Mao ed una pistola dentro un tabernacolo della cappella, evidentemente messe là apposta da loro”. I due vengono tenuti prigionieri e interrogati per una settimana a Copiapò, e poi trasferiti su di un camion a Santiago. “Quello fu uno dei momenti in cui pensammo davvero di non uscirne vivi – racconta Giuseppe Murineddu – sapevamo di un altro viaggio di prigionieri sulla stessa tratta, in cui gli arrestati “tentarono di scappare” e furono tutti uccisi. Così ad ogni sosta del camion – il viaggio è lungo più di 800 km e dura oltre 13 ore – pensammo che anche a noi sarebbe toccata la stessa sorte”. Li salvò, quasi sicuramente, il fatto di essere stranieri e il forte interessamento al loro caso del governo italiano e dell’ambasciatore dell’Italia a Santiago. (m.b.)

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