La Nuova Sardegna

Sassari

Rogo Moby Prince, la «nave fantasma» era americana

di Piero Mannironi
Rogo Moby Prince, la «nave fantasma» era americana

I figli del comandante Chessa non si sono arresi all’archiviazione: un team forense ha rivisto tutti gli atti. La nave fantasma fuggita era Usa e stava scaricando armi. Nell’incendio a Livorno 140 morti, 30 i sardi

09 aprile 2013
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SASSARI. Quella sentenza di archiviazione fu vissuta dai familiari delle vittime come un doloroso tradimento. L’inchiesta-bis sulla tragedia del Moby Prince, la più grave della storia della marineria civile italiana, aveva infatti creato un clima di grande speranza, la convinzione che finalmente la magistratura sarebbe riuscita a penetrare il buio groviglio dentro il quale si nascondeva la verità. E invece, nel 2010 arrivò l’archiviazione che consegnò il caso alla tremenda banalitàý di un incidente navale provocato «dall'errore umano» e da una «concatenazione casuale di eventi». I figli del comandante Ugo Chessa non si sono arresi e hanno affidato a un team di esperti di ingegneria forense di Milano coordinati da Gabriele Bardazza, la revisione di tutti gli elementi processuali, chiedendogli di rileggerli con l’aiuto di nuove e sofisticate tecnologie. Ed ecco, proprio alla vigilia del 22esimo anniversario del rogo che costò la vita a 140 persone, il colpo di scena.

Due soprattutto gli elementi nuovi che impongono una revisione della ricostruzione degli eventi. Il primo è la posizione del Moby Prince e quella della petroliera Agip Abruzzo la sera del 10 aprile ’91. Rivedendo e filtrando alcuni filmati amatoriali, il perito è riuscito a provare che il Moby speronò la petroliera non uscendo dal porto nella sua rotta verso Olbia, ma tentando di rientrare a Livorno. Il che comporterebbe un interrogativo obbligato: perché Ugo Chessa aveva ordinato l’inversione di rotta? Forse perché era successo qualcosa che poteva aver messo a rischio la sicurezza della nave? Magari una collisione con una terza nave rimasta finora fuori dalla scena?

La risposta potrebbe essere legata al secondo clamoroso elemento scoperto dal perito: la misteriosa nave Theresa II, che si allontanò a tutta velocità dopo una comunicazione criptica con una sconosciuta “Nave uno”, ha finalmente un nome. «Dalle nostre comparazioni - spiega Gabriele Bardazza - si evince che Theresa II altro non è che è Gallant 2, una delle navi militarizzate americane che quella notte erano impegnate nel trasporto di armi nella base Usa di Camp Darby. Resta da capire il motivo per cui il comandante abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio identificativo, ma abbia usato un nome in codice. Come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa II, nonostante nell’inchiesta di questa nave fantasma si sia parlato a lungo». Dunque, la voce misteriosa che comunicò con la “Nave uno” sarebbe quella del comandante greco Theodossiou della Gallant 2.

Forse i nuovi elementi potranno dissipare la nebbia che, dal 10 aprile 1991, avvolge la storia del traghetto partito da Livorno per Olbia e mai approdato in Sardegna. Con un carico umano di gente comune, di piccoli sogni e di quotidianità, di ritorni e di speranze. 140 vite divorate dalle fiamme, incredibilmente annientate a poche miglia dal molo dopo lacollisione con la petroliera Agip Abruzzo poco prima delle 22,30.

A far aprire l’inchiesta-bis era stata un’istanza dell’avvocato Carlo Palermo, legale dei figli del comandante del Moby Prince, Ugo Chessa. Palermo non basò il suo ricorso su fantasiose deduzioni o nuove rivelazioni, ma molto più semplicemente cucì con pignoleria e con infinita pazienza testimonianze dimenticate, atti incongruenti o addirittura documenti misteriosamente scomparsi. La sua ipotesi è che il Moby Prince sia finito in mezzo a un frenetico traffico di armi che, quella sera, animava il porto di Livorno. Un traffico «coperto», cioé segreto, probabilmente organizzato dalle autorità militari statunitensi e autorizzato da quelle italiane.

Per l’avvocato della famiglia Chessa, il punto di partenza era stato la testimonianza di un tenente della Guardia di finanza, Cesare Gentile, che la sera del 10 aprile era uscito dal porto su una motovedetta pochi minuti dopo la collisione: alle 22,35. Gentile, nella sua deposizione davanti ai giudici del tribunale di Livorno, aveva parlato con grande precisione delle operazioni di carico e scarico di armi, che erano in corso nel porto da una nave mercantile “militarizzata”. Cioè da una nave affittata dal governo statunitense per trasportare armi e munizioni. Quello era l’ultimo giorno di “Desert Storm”, la prima guerra del Golfo, e dall’Iraq tornava in Europa l’arsenale americano. Le armi erano ufficialmente destinate alla base Usa di Camp Darby, tra Livorno e Pisa. Ma le armi scaricate quella notte dalla nave americana non sono mai finite nella base di Camp Darby. Avrebbero infatti dovuto transitare su delle chiatte nel canale di Navicello, sbarrato dal ponte mobile di Calabrone. Ebbene, tra le 15,45 del 10 aprile e le 9,10 dell’11, c’è la prova che il ponte rimase abbassato. Quindi, quelle armi sono finite da qualche altra parte.

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