La Nuova Sardegna

Sassari

«Tre i tentativi di strangolare Orsola»

di Elena Laudante

Nella perizia della Corte d’assise la «modalità omicidiaria» dell’insegnante: «Nessun gioco erotico»

21 febbraio 2013
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SASSARI. Prima di toglierle per sempre il respiro, l’assassino di Orsola Serra ha provato per due volte a strangolarla con la corda da tenda, come mostrano i tre segni lasciati sul collo dell’insegnante di Alghero uccisa il 23 ottobre 2011. E lo ha fatto in un’azione «che si è sviluppata in un arco temporale non brevissimo» verosimilmente per la resistenza della vittima. Sono altri retroscena del delitto offerti dal perito nominato dalla Corte d’assise, che domani sarà sentito al processo a carico di Alessandro Calvia, 42 anni, algherese che aveva avuto una relazione con l’insegnante, e che secondo la Procura l’avrebbe uccisa perché lei voleva ufficializzare il rapporto.

Nella perizia già depositata, il super consulente Sabino Pelosi, direttore di Medicina legale a Modena, assicura che Orsola è stata uccisa tra le 23.30 e le 24 della domenica, non attorno alle 20 come il consulente del pm Paolo Piras aveva ipotizzato. Circostanza che potrebbe gettare nuova luce sull’alibi dell’imputato, che a quell’ora giura di essere stato a casa della compagna ufficiale. Ma Pelosi affronta anche altre questioni, come il modo in cui l’assassino potrebbe aver usato la corda poi trovata attorno al collo, sulla base delle foto del corpo. Cioè la «modalità dell’azione omicidiaria», delineata sulla base dei riscontri trovati dagli inquirenti nella camera da letto della vittima. Tutto è avvenuto qui, conferma la perizia, che «esclude l’evenienza di una colluttazione preliminare allo strangolamento», come si deduce dall’assenza di segni sul corpo della vittima. «Ipotizzando che l’evento si sia sviluppato sul letto matrimoniale, è evidente - si legge nelle carte - che l’ipotetico prodursi di lesività traumatica, possibilmente riconducibile alla intuitiva resistenza opposta dalla vittima, sia stato inibito ovvero del tutto annullato dalla rapidità dell’azione mortale che si è sviluppata su di un substrato, quale è il letto, particolarmente morbido e in grado di assorbire le conseguenze di uno o più traumi portati sul corpo della donna». Ma segni in qualche modo riconducibili a un tentativo di liberarsi dalla morsa dell’aggressore, che «ha agito di sorpresa» alle spalle, ci sono. Si tratta di «tre lesioni distinte, l’inferiore delle quali rinvia a un solco pressochè a tutto tondo» dice riferendosi al quella principale, che poi causerà la morte. «Mentre le restanti due sono ascrivibili all’azione dello stesso (il cordino, ndc) applicato in tempi diversi, antecedenti e del tutto ravvicinati rispetto alla produzione della prima». Per il perito, insomma, mentre la prima traccia livida attorno al collo è quella fatale, le altre due «possono essere interpretate come precedenti tentativi di strangolamento non riusciti, verosimilmente proprio in esito alla resistenza offerta dalla vittima». Ed è questo aspetto che porta il medico legale a spiegare perché la sua ricostruzione delle modalità di utilizzo della corda non è compatibile con quella della Procura. «I diversi tentativi posti in essere dall’aggressore - chiarisce - evidentemente testimoniando il perdurare dell’azione omicidiaria, confliggono sia con l’ipotesi del cordino utilizzato a mò di cappio che con quella dell’evento accidentale in corso di un contesto erotico». Quest’ultimo scenario era stato in qualche modo delineato dal consulente della difesa di Calvia, Francesco Maria Avato, il quale aveva tratto la sua conclusione anche sulla base del fatto che il corpo di Orsola fosse seminudo (indossava solo gli slip). Ma il perito lo esclude. Come confuta la tesi del cordino usato come cappio, cioè la spiegazione che il perito del pm, Franco Lubinu, aveva dato alla distribuzione del Dna di Calvia sulla corda, presente sulla parte centrale del laccio e non alle estremità. Se il laccio fu usato come cappio - era il ragionamento di Lubinu - e non come “redini”, cioè impugnandolo per i capi, è plausibile che non ci sia Dna sulle estremità. Ma il perito, si diceva, non fa sua questa ricostruzione. Perché sul cordino c’era un nodo, compatibile con una lesione quasi sotto la nuca, che lascia pensare come «l’aggressore l’abbia usato con i capi liberi incrociati posteriormente alla nuca». Domani Pelosi risponderà alle domande di pm, parte civile, difesa e Corte.

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