La Nuova Sardegna

Campanacci, quando la passione è nel Dna 

di Giovanni Melis
Campanacci, quando la passione è nel Dna 

Marco Floris è l’erede di una delle due famiglie di Tonara che tiene viva l’arte di sonnaggios e pittiolos

05 giugno 2017
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TONARA. «Ogni campanaccio ha un suo suono. Assegna un’identità al proprietario. Ogni pezzo è unico e inimitabile, come l’essere umano». Marco Floris, 34 anni, erede della lunga tradizione, vede nella sue produzioni in bronzo delle creature vive e personalizzate. Ha ereditato l’arte del padre Ignazio e sulla sua strada si sta avviando anche il fratello Salvatore. Sa che ci vogliono tempo e fatica, che spesso il mercato non ripaga. Ma quando si è immersi nella cultura dell’artigianato, si diventa quasi prigionieri di un’arte che ormai ha varcato i due secoli di storia. Sonaggios e pittiolos, di ogni forma e foggia, sono realizzati con un lungo procedimento di ben 26 fasi. Tanto ci impiegano bronzo e altri metalli per diventare uno strumento dal suono unico, capace di identificare un gregge da lontano.
A Tonara l’arte dei campanacci la tramandano le famiglie Floris e Sulis. Ognuno con le proprie peculiarità, sono gli ultimi immortali di una complessa attività che si sposa indissolubilmente con il mondo delle campagne. Pastoralismo e bottega artigiana dei campanacci vivono in totale simbiosi. «Ogni allevatore – spiega Marco Floris – chiede un certo tipo di tonalità. In passato, a seconda dei luoghi, realizzavamo specifici campanacci. Ad esempio sa Narboliesa, sa Sindiesa, sa Quartesa e altre. I pastori di Desulo chiedono un certo tipo di suono, adatto alla montagna e con un certo tipo di propagazione. Nel Campidano le richieste cambiano, a seconda della dimensione del gregge, della vicinanza di altre aziende».
Il campanaccio è elemento caratterizzante anche delle maschere tradizionali sarde. «Ogni gruppo ha le sue preferenze – prosegue Floris – . I Mamuthones hanno vari pezzi che vanno sistemati in un certo ordine. A Ottana li richiedono di maggiori dimensioni. Fonni, Orotelli e Ortueri hanno altre esigenze». La crisi del settore agropastorale ha messo un poco in crisi l’attività. «Gli allevatori – dice – sono nostri principali clienti. Con il calo del prezzo del latte, destinano sempre meno risorse al rinnovo del parco campanacci. Per fortuna diversi pastori sardi, migrati nella penisola, hanno mantenuto la tradizione dei campanacci tonaresi. Anche se non sempre chi sta in Toscana, Umbria o Lazio può venire in Sardegna a scegliere i pezzi».
Non solo il suono, i pastori badano anche alla durata «ma in passato erano molto più attenti alla cura dei pezzi. Il campanaccio, se trattato bene – osserva Floris – ha lunga vita. Sarebbe infatti buona regola avere campanacci per l’estate e per l’inverno. Dovrebbero essere ingrassati e custoditi bene. Una regola che spesso non si osserva». Nonostante la crisi e la storica concorrenza con le campanelle del nord Italia, Svizzera e Austria, i campanacci di Tonara continuano ad esistere e resistere. «La campanella è un prodotto diverso – spiega Floris –, è ripetibile, ha un maggiore peso e non assicura quella differenziazione dei suoni che gli allevatori richiedono. Il campanaccio infatti va accordato secondo le esigenze di ognuno. Siamo quasi dei musicisti sotto questo profilo e non possiamo permetterci nessun errore. La partita deve avere quell’accordatura, che avviene con un paziente lavoro manuale. È una fase delicata che richiede attenzione ed energia». Un’arte quasi bicentenaria, quindi, che la modernità non ha scalfito. Pur minata dalla crisi, la bottega artigiana sopravviverà ancora. «Se mio figlio volesse proseguire quest’arte – conclude Floris – io sarò lieto di insegnargliela. Non si arricchirà ma avrà il privilegio di essere immerso nella storia».
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