La Nuova Sardegna

Muore bimba di 3 mesi Denuncia dei genitori 

di Luigi Soriga
Muore bimba di 3 mesi Denuncia dei genitori 

Sassari, la piccola Alessia Murgia di Uri era ricoverata nella clinica pediatrica Il padre: «Le hanno inserito un ago in vena e il suo cuore fragile ha ceduto» 

01 giugno 2017
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URI. In questa brutta storia senza lieto fine, conviene partire dagli ultimi istanti di vita. Lunedì 29 maggio, ore 7,15, Clinica pediatrica dell’Aou di Sassari. Alessia dorme in un lettino, ha 3 mesi e 9 giorni, un cuore zoppo, una cicatrice che parte dal collo e si distende sino alla pancia, capelli neri e lunghi, respiro regolare. È tranquilla. Ha chiuso le saracinesche degli occhi, e con loro a doppia mandata anche le porte blindate del suo piccolo mondo di pace. Di quello che c’è fuori ha imparato ad avere paura. Troppi camici, troppi aghi, troppo dolore.
Nel lettino delle Cliniche. La mamma Tiziana Spanu, 35 anni, e il papà Gianluca Murgia, 41, vegliano su di lei, così come hanno fatto decine di volte in questi mesi di altalena tra la vita e la morte. Aspettano che arrivi il cardiologo e che questa notte insonne termini. Una infermiera, prima di andare via, li saluta: «Sembra che stia decisamente meglio, i valori sono a posto, anche il colore delle labbra è perfetto. State tranquilli».
L’ago in vena. Poi alle 7,30 c’è il cambio di turno ed entrano in servizio altre due infermiere. Alle 8,04 decidono di infilare un ago nella vena del braccio della bimba. «Lei dormiva profondamente – racconta Gianluca Murgia – era serena. Perché svegliarla in questo modo? Perché non aspettare l’arrivo del medico? All’inizio abbiamo insistito gentilmente, perché sapevamo benissimo quanto era complicata quell’operazione e cosa avrebbe significato».
A Genova. Al Gaslini avevano assistito tante volte a quel gesto così semplice che un infermiere potrebbe fare a occhi bendati. Ma non con un esserino così piccolo, delicato come porcellana sottile. «Alessia è diffidente, sa che una mano che si avvicina spesso vuol dire dolore – racconta il padre – anche quando la prendiamo in braccio, per una carezza, lei si irrigidisce. Solo dopo un po’ si tranquillizza e si scioglie in un sorriso». A Genova anche un semplice ago in vena diventa una procedura complessa: «C’è il medico di rianimazione, le viene praticata una sedazione blanda, e la vena viene individuata con l’ausilio dell’ecografo, per evitare inutili e dolorose punture. Questo per un motivo semplice: quando hai un cuore così fragile, anche un pianto disperato può risultare fatale».
Gli ultimi istanti. Alle 8,05 un’infermiera prova l’accesso venoso. Alessia comincia a dimenarsi, grida. Anche la mamma si spaventa: «Lasciatela stare, aspettate il medico. Ho detto alle infermiere. Loro l’hanno messa di fianco, la tenevano per il braccio». Dice il padre: «Ho provato a insistere, avrei dovuto fare quello che non ho avuto la prontezza di fare: strappare la bimba dalle loro mani».
La storia. Alessia al dolore aveva imparato a dare del tu. Non l’aveva mai lasciata sola. È nata con la sofferenza prestampata nel destino, partorita al Gaslini di Genova perché la sua cardiopatia congenita grave era stata diagnosticata in gravidanza avanzata. Si chiama sindrome del cuore ipoplasico sinistro, significa che una parte del cuore non si è formata: è una patologia rara che non ti dà molte speranze di sopravvivere. Ai 4 anni di età, dicono le statistiche, se la cava solo un paziente su due. Ma la fase più critica sono le prime settimane, ed Alessia è rimasta abbarbicata alla vita dopo 7 interventi chirurgici in 45 giorni, aperta e richiusa 4 giorni di seguito. Però era una piccola guerriera ed era quasi riuscita a scollinare. Le pendenze più insidiose erano alle spalle. Il 27 aprile l’equipe di Genova, la sua famiglia allargata, decide di dimetterla. Ai genitori affidano un foglio, un protocollo medico rigido, che deve accompagnare la bimba come fosse una carta d’identità. Sono le istruzioni d’uso per sopravvivere. «Le cliniche di Sassari dovevano essere una fase transitoria e di monitoraggio, in attesa del successivo intervento al cuore da svolgere al Gaslini. La raccomandazione era: tenete sempre riguardata la piccola, e a ogni minima alterazione rivolgetevi al pronto soccorso pediatrico».
La morte. Per questo domenica notte, alle 23, Gianluca e Patrizia partono da Uri e si dirigono alle Cliniche. «Alessia era mogia e non mangiava. Il livello di ossigeno nel sangue era lievemente sotto la soglia». I medici la visitano, provano l’accesso venoso, ma desistono. Alessia è più tranquilla, il quadro clinico si normalizza, ecocardiogramma perfetto, riprende colorito, dorme. «Mi sembra incredibile che tutti i sacrifici di questi tre mesi, tutte le nostre speranze non siano serviti a nulla – dice Gianluca Murgia – io e mia moglie abbiamo dedicato ogni attimo della nostra vita ad Alessia, lasciando ogni cosa dietro: lavoro, famiglia, e anche le nostre due figlie di 13 e 8 anni. Siamo andati a Genova con un solo obiettivo: riportare a casa sana e salva la nostra piccola. E ci avevamo quasi creduto». Alle 8,10, mentre le infermiere tentano di infilare l’ago, Alessia vomita e poi perde conoscenza. È in arresto cardiaco. Arriva il medico, poi i rianimatori, la riprendono un paio di volte, ma poi il suo cuore si ferma per sempre.
L’inchiesta. I genitori si rivolgono ai carabinieri, sporgono denuncia, e il magistrato dispone il sequestro delle cartelle cliniche e l’autopsia sul corpo della bimba. Non ci sono iscritti sul registro degli indagati: è un caso molto delicato, perché Alessia in bilico tra la vita e morte, c’è stata dal suo primo giorno. I genitori sono convinti che la colpa sia di quell’ultimo pianto disperato. Solo l’autopsia potrà discernere tra l’errore umano o il destino.
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