La Nuova Sardegna

“Rifugiato a casa mia”: ecco la vera integrazione

“Rifugiato a casa mia”: ecco la vera integrazione

La Caritas e le parrocchie adottano gruppi di giovani e nuclei familiari Per loro una casa, corsi di italiano e di formazione per crearsi un lavoro

02 giugno 2016
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SASSARI. Rinascere può avere il sapore di una pizza impastata e cucinata nel forno di casa, sotto la sapiente guida di una improvvisata vice mamma. Il riscatto può cominciare dal proprio nome scritto sul citofono di un palazzo nel centro della città, o dal buongiorno in un italiano ancora incerto da rivolgere al vicino di casa che si incontra in ascensore. Si chiama integrazione, i primi effetti si percepiscono quando gli occhi addosso diminuiscono e non ci si sente più corpi estranei all’interno di una comunità. Il primo a predicare questo tipo di integrazione e accoglienza è stato Papa Francesco, che più volte ha sottolineato come i migranti non siano un pericolo ma una risorsa. E ha invitato le parrocchie ad aprire loro le porte. In Sardegna l’appello è stato raccolto. Le diocesi, attraverso la Caritas, hanno aderito al progetto “Rifugiato a casa mia”: la famiglia diventa il nido morbido e avvolgente nel quale si impara a camminare da soli per poi spiccare il volo.

Il progetto. Tre iniziative nella diocesi di Sassari, con una decina di persone protagoniste. Tutti rifugiati, reduci da un periodo vissuto in un centro d’accoglienza. Cinque ragazzi di nazionalità diversa (Iraq, Sierra Leone, Nigeria e Libia), dai 20 ai 30 anni: dal 7 maggio convivono in un appartamento in via Napoli, pieno centro. La casa appartiene alla congregazione delle Angeline, un istituto secolare commissariato i cui beni sono gestiti dalla Chiesa. Nel condominio i cinque ragazzi sono stati accolti con una buona dose di diffidenza. Ora la situazione è migliorata. L’integrazione cammina svelta, grazie alle famiglie che hanno adottato i cinque e alla Caritas che vigila come una chioccia. Dice don Gaetano Galia, responsabile della Caritas turritana: «Abbiamo aderito al progetto perché vogliamo aiutare i migranti. E ospitarli nei centri, che spesso assomigliano a lager più che a normali case, non ha senso. Perché lì stanno parcheggiati. Vitto e alloggio e poco più. L’obiettivo è offrirgli una opportunità, non vederli all’angolo delle strade a chiedere l’elemosina». Da due giorni un’esperienza fotocopia rispetto a quella di Sassari è iniziata a Ploaghe, in una casa della parrocchia ristrutturata. Anche qui c’è un gruppo di famiglie a fare da tutor. Altrettanto accade a Cagliari, dove sono 22 i protagonisti del progetto “Rifugiato a casa mia”. Dice Marco Lai, responsabile regionale della Caritas: «Vogliamo dare un segnale di accoglienza e di inclusione. Per questo le famiglie hanno aperto le porte delle loro case e si sono messe a disposizione. Chiudersi non ha senso, perché questi giovani che arrivano in Italia e nella nostra Sardegna in cerca di riscatto, sono solo più disperati dei tantissimi italiani, quasi tutti giovani, che lasciano il loro paese per trovare lavoro e fortuna altrove. La mobilità, declinata in varie forme, è un problema collettivo».

La nuova vita. Tra i tutor dei cinque ragazzi che convivono nell’appartamento a Sassari c’è Gianfranco Addis, 54 anni, sposato, due figli adulti. È un volontario della Caritas, per la quale cura anche la comunicazione. Fa parte del gruppo di famiglie, delle parrocchie di Cristo Redentore e Sacra Famiglia, che ha adottato i cinque rifugiati. «Li sentiamo tutti i giorni – racconta Gianfranco – abbiamo creato un gruppo whatsApp per chattare con loro. E andiamo a trovarli, li accompagniamo a fare la spesa e alle lezioni di italiano. Abbiamo istituito un fondo nel quale versare i soldi che servono per pagare alimenti e bollette, mentre la Caritas provvede all’inserimento lavorativo. La prima sera – continua Gianfranco – abbiamo organizzato una serata in pizzeria per conoscerci un po’. Comunicare è faticoso perché ancora non conoscono la lingua, significa che nei centri d’accoglienza, dove hanno vissuto sinora, non hanno seguito un reale percorso di integrazione. Stiamo cercando di individuare le loro attitudini: per esempio, dalle foto che il più giovane conserva nel telefonino, abbiamo capito che in Libia era un bravo falegname. Lo metteremo alla prova anche qui».

Le famiglie. A marzo, a portare fortuna al progetto che partiva a Cagliari, è stata la nascita di un bimbo: figlio di una coppia di rifugiati ospiti delle suore vincenziane. Che alla famiglia hanno messo a disposizione la foresteria dove sino a poco tempo fa abitava l’ex arcivescovo Giuseppe Mani. Per ricambiare, il capofamiglia si prende cura dell’orto delle suore. Non è l’unico caso: altre famiglie sono ospitate dalle vincenziane a Cagliari e a Sassari (padre, madre e bambina del Gambia), che hanno aperto le porte offrendo spazi inutilizzati: un tetto, ma anche una speranza, da cui ripartire. (si. sa.)

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