La Nuova Sardegna

Un cimitero per 23mila dannati

di Gianni Bazzoni
Un cimitero per 23mila dannati

Era “Il lazzareto del Mediterraneo” di magiari, austriaci, boemi e croati

18 maggio 2016
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ASINARA. Voltarsi indietro aiuta a capire, soprattutto a non dimenticare. L’Asinara oggi è un Parco nazionale, un ponte sul quale passa la speranza di un futuro migliore per le popolazioni del nord Sardegna ma anche di tutte quelle che - a vario titolo - hanno avuto a che fare con l’isola. E quello dei prigionieri, militari o detenuti, stranieri e italiani, è un capitolo significativo, coinvolgente, impressionante per gli effetti di sofferenza e per le conseguenze tragiche.

Già nel 1885 l’Asinara era stata trasformata in una sorta di “lazzaretto del Mediterraneo”, specie dopo l’epidemia di colera che aveva interessato parte dell’Italia, e Napoli in particolare. Ma nel 1916 i numeri diventarono quelli di una vera e propria emergenza umanitaria, paragonabile a quella di chi oggi si imbarca su mezzi di fortuna e cerca di attraversare il Mediterraneo per raggiungere le coste occidentali.

L’invasione, all’indomani della prima guerra mondiale, fu terribile. E l’Asinara non era certo attrezzata per accogliere decine di migliaia di prigionieri, in larga parte già colpiti da malattie infettive, soprattutto colera. Vennero impiegate più di 1900 navi per trasportare quel carico di uomini: in tutto quasi 23mila di diverse etnie: ungheresi, austriaci, boemi e croati. Allora si sgomberava Valona, la città albanese sotto il controllo di un contingente italiano. E c’era una gran fretta, si voleva fare presto. Così saltarono anche le precauzioni più elementari, a cominciare dagli accorgimenti minimi per evitare il contagio.

In realtà, le misure indicate dalla Direzione generale della Sanità vennero disattese completamente: prigionieri malati e sani vennero imbarcati insieme, una promiscuità che determinò situazioni ingestibili. L’epidemia si diffuse senza controllo a bordo delle navi: quasi duemila morirono durante il viaggio verso Cala Reale, i corpi vennero gettati in mare. Altri seimila prigionieri vennero stroncati dal colera e seppelliti. La stragrande maggioranza solo con una croce, senza nome, accatastati nelle fosse comuni dopo essere stati cosparsi di calce viva.

All’Asinara oggi restano diversi segni materiali. Alcuni ben visibili come la cappella austro-ungarica, l’ossario, le rovine degli edifici che accolsero i prigionieri e gli ammalati, i cippi funerari e quei cimiteri che sembravano poter contenere tutti i morti.

Ma anche il ricordo di quell’inferno è molto forte, se è vero che riesce a muovere popoli e a farli incontrare, a fare sbarcare nel Parco nazionale dell’Asinara presidenti della Repubblica, uomini e donne di Governo, militari e familiari che vanno alla ricerca di un segno, anche semplice, che colleghi quei prigionieri scomparsi alle loro famiglie.

Oggi nell’isola-Parco si può trovare rispetto e grazie al lavoro di chi non ha mai smesso di cercare e studiare, anche la vicenda dei dannati dell’Asinara - rimosso dalle cronache della Grande guerra - è stata ricostruita. La riscoperta dell’album «I prigionieri di guerra austriaci all’Asinara. 18 dicembre 1915-24 luglio 1916», conservato all’Archivio centrale dello Stato, è stato pubblicato a cura di Assunta Trova e Giuseppe Zichi, con analisi delle immagini di Salvatore Ligios. E le foto terribili sono quelle scattate direttamente da loro, dai militari.

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