La Nuova Sardegna

Graziano Mesina si difende in aula: «La droga? Non so che cosa sia»

di Mauro Lissia
Graziano Mesina si difende in aula: «La droga? Non so che cosa sia»

Processo all’ex ergastolano di Orgosolo accusato di aver capeggiato un’organizzazione di trafficanti. Lui: «Mai fatto parte di bande, neanche quando ero latitante». Il pm Ganassi ha chiesto 26 anni

06 maggio 2016
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CAGLIARI. «Droga? Mai presa in vita mia, mai nessuno può dire di avermi visto anche solo ubriaco. Se la vedo, neanche so che cos’è»: stretto in una maglietta bianca e seduto al banco davanti al tribunale, Graziano Mesina ha provato a tirarsi fuori dall’accusa di aver capeggiato un’organizzazione di trafficanti per la quale il pm Gilberto Ganassi ha chiesto la sua condanna a ventisei anni di carcere.

Estratto un mazzetto di fogli spiegazzati, cartelle scritte a mano su entrambe le facciate, l’ex latitante di Orgosolo ha cercato di leggere quanto s’era preparato insieme agli avvocati Maria Luisa Venier e Beatrice Goddi, che l’hanno assistito come si fa con gli anziani. Balbettava, il terribile Mesina. Incespicava sulle parole, provava a collegare frasi e altre ne saltava, uno stato di difficoltà che solo grazie alla pazienza del presidente Massimo Poddighe non è scivolato nella farsa.

«Non ho mai fatto parte di associazioni criminali - ha detto Mesina - neppure quand’ero latitante negli anni sessanta. Quando Gigino Milia mi ha cercato è stato per propormi attività lecite di intermediazione, vendita di immobili. Negli anni in cui sono stato libero, dal 2004 in poi, mi sono occupato di quello e di fare la guida turistica. Venivano da me imprenditori, persone importanti, visitavano il Supramonte e intanto si discuteva di compravendite».

Tutta un’altra storia rispetto a quella descritta dal pm Ganassi nella sua requisitoria, dove Mesina appare nella versione più feroce, spietato e avido di denaro, pronto ad atti di violenza pur di arrivare agli obiettivi. Invece nulla: viaggi a Milano e in altre città, ma non per trattare stupefacenti. Malgrado il contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate sembri piuttosto chiaro: «Quando al telefono parlo di vitelli, sono vitelli. Il vino era vino, perché mi occupavo anche di bestiame e delle produzioni di un mio parente». Quando poi nelle carte del procedimento compare Capo Ceraso, quella «è stata la più grossa operazione finanziaria realizzata da me in quegli anni, un’operazione lecita, perché nella mia vita non c’è traccia di reati legati alla droga».

D’altronde Mesina non aveva bisogno di soldi: «Mi invitavano dappertutto, televisione, convegni, sagre - ha riferito al tribunale - e mi pagavano profumatamente senza neppure il bisogno di chiederlo. Poi l’attività di guida, gli affari... tutte cose lecite». Nel ricostruire a suo modo la vicenda processuale - si è trattato di dichiarazioni spontanee, quindi senza contradditorio - l’ex primula rossa del banditismo sardo è andato oltre i fatti per sconfinare in considerazioni amare: «Questa è una condanna a morte - ha detto al tribunale - perché basterebbero sei mesi e un giorno perché io dal carcere non esca più. Stavo ricostruendo la mia vita nella legalità. Dicono che il carcere serva per recuperare le persone, ma quale recupero? Se non esci più è come la morte».

Con Mesina sono sotto processo Gigino Milia, 66 anni di Fluminimaggiore, e l'avvocato Corrado Altea, arrestati nel blitz dei carabinieri del 10 giugno 2013 che portò in carcere 25 persone. Imputati anche anche Franco Pinna, Efisio Mura, Enrico Fois - conosciuto come Vinicio - e Luigi Atzori. Ieri ha parlato anche l’avvocato Herika Dessì per Pinna, il 7 giugno si va avanti con gli interventi degli altri difensori.

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