La Nuova Sardegna

Varacalli, il caso approda al Ministero

di Mauro Lissia
Varacalli, il caso approda al Ministero

Il Guardasigilli invia gli ispettori in Corte d’Assise: acquisiti gli atti sull’omicidio Corona. Il pentito aveva una pistola in casa

22 gennaio 2016
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CAGLIARI. Il Governo nazionale ha formalmente preso in mano il caso di Rocco Varacalli, il pentito di n’drangheta che nel 2009 ha collaborato con la Procura di Cagliari nell’inchiesta sull’assassinio del servo pastore Alberto Corona, di cui è stato successivamente giudicato responsabile e condannato a 24 anni e mezzo di carcere. Ieri mattina gli ispettori del Ministero della Giustizia si sono presentati alla cancelleria della Corte d’Assise e hanno chiesto copia di tutti gli atti processuali che riguardano Varacalli e gli allevatori Francesco e Raffaele Corona, assolti definitivamente dall’accusa di aver commesso il delitto malgrado le prove false costruite contro di loro e seminate dal collaboratore di giustizia.

L’interrogazione. L’iniziativa del Guardasigilli Andrea Orlando è nata dopo l’interrogazione presentata in commissione giustizia dai parlamentari Daniele Capezzone e Gianfranco Chiarelli, che hanno chiesto spiegazioni sulle attività svolte da Varacalli all’interno del procedimento penale per la morte di Corona e se goda ancora dei privilegi garantiti ai pentiti dallo Stato. Orlando avrebbe dovuto rispondere ieri mattina all’interrogazione, l’appuntamento è stato rinviato a giovedì prossimo perché nell’esame della vicenda sono saltati fuori altri elementi che riguardano il Ministero degli Interni. La pistola in casa. A leggere la sentenza depositata poco prima dello scorso Natale dalla Corte d’Assise presieduta da Francesco Sette si apprende infatti che la mattina del 24 febbraio 2009, quando il diciannovenne Corona è stato ucciso con un colpo di pistola in bocca all’ovile di Ghineu, tra Serdiana e Dolianova, Varacalli ha bussato completamente ubriaco al portone d’ingresso dell’abitazione di Selargius, in via dei Gladioli, che divideva con l’amante Maria Lucia Angioni. È stata proprio la donna a riferire il fatto ai giudici, mettendo finalmente la Procura sulla pista giusta. Ma gli accertamenti del Ministero degli Interni non riguardano il processo quanto il fatto che Varacalli, come ha raccontato la donna, teneva una grossa pistola proprio in quella casa, l’abitazione che il servizio nazionale di protezione testimoni gli aveva concesso in uso per il suo soggiorno in Sardegna, al riparo dalla vendette di n’drangheta. Le norme stabiliscono che gli appartamenti dei pentiti debbano essere tenuti in costante osservazione, controllati e perquisiti. Invece Varacalli, come è scritto nella sentenza elaborata dal giudice Giorgio Cannas, ci abitava insieme all’amante e soprattutto vi custodiva tranquillamente il proprio arsenale privato. Possibile che malgrado la sfilza di reati commessi e le condanne incassate negli anni, compresa una a dodici anni di reclusione come mandante di un omicidio, lo Stato si fidasse fino a questo punto di Varacalli? La risposta è sì, lo dimostrano i fatti descritti dai giudici: è a lui che il 4 marzo successivo al delitto il pm Sandro Pili affida un registratore per indagare sull’omicidio ed è sempre lui che - nonostante le prove false costruite per incastrare i Baldussu - se la scampa dall’accusa di calunnia reale che avrebbe indebolito la sua posizione di testimone al processo torinese contro le n’drine calabresi, quello nato come operazione Minotauro e istruito dal procuratore Giancarlo Caselli.

in libertà. Ora, a distanza di sei anni, Varacalli è ancora libero e su iniziativa dell’ex parlamentare e componente del Csm Mauro Mellini il suo caso, finora rimasto all’interno dei confini sardi, verrà esaminato per stabilire se qualcuno ha sbagliato. Si cercherà di capire anche perché Francesco Baldussu, dopo quasi due anni di carcere da innocente, non abbia ricevuto il risarcimento statale e abbia dovuto rinunciare anche a costituirsi parte civile contro Varacalli in mancanza di un accertamento penale della calunnia reale.

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