La Nuova Sardegna

Da Emilio Lussu alla Brigata l’isola nella Grande guerra

di LUCIANO MARROCU
Da Emilio Lussu alla Brigata l’isola nella Grande guerra

Da oggi sino a giovedì a Sassari nella Sala Sciuti tre giornate di studio Come l’orrore del conflitto in trincea è stato trasformato in una mitologia

15 dicembre 2015
4 MINUTI DI LETTURA





di LUCIANO MARROCU

Furono decine di milioni coloro che parteciparono direttamente ai combattimenti della prima guerra mondiale, coinvolti in una vicenda che finì per trasformarsi, come mai era capitato prima di allora, in una esperienza globale. Soldati di lingue e culture lontanissime vissero, per più di quattro anni, una quotidianità segnata dal tratto comune di guardare ogni giorno in faccia la morte. Immersi nell’orrore della trincea, soldati di una parte e dell’altra, futuri vincitori e futuri vinti, sentirono da subito il bisogno di una narrazione della guerra che ne illuminasse il senso. Una narrazione che assunse precocemente i toni dell’epopea, e non solo perché ad elaborarla contribuirono in maniera decisiva stati maggiori, uffici di propaganda, grandi giornali.

Racconti orali. Anche il racconto orale e popolare, mano a mano che ci si allontanò nel tempo e nello spazio dalle fonti dirette, si mostrò propenso ad aggirare (se non proprio a censurare) i momenti di verità e di orrore che pure erano stati parte fondamentale di quell’esperienza. Al singolo soldato e poi al singolo reduce, doveva risultare difficile non attribuire ai suoi anni in trincea un qualche significato positivo. Senza contare che solo se condita da una qualche misura di epopea, la narrazione della sua esperienza di soldato al fronte poteva risultare gratificante anche per chi l’ascoltava. Quando poi protagonista della narrazione era una figura collettiva – un reparto, un paese, un popolo – i processi della memoria e della commemorazione acquistavano un’enfasi particolare.

Pugnalata alla schiena. Persino tra gli sconfitti circolarono interpretazioni della guerra che in nessun modo ne mettevano in dubbio le ragioni iniziali: la Germania era stata sconfitta non sul campo ma da una “pugnalata alla schiena” dei traditori. Ai soldati inglesi il primo ministro Lloyd George promise che, a ricompensa dei loro sacrifici, avrebbero trovato, al loro ritorno, «una casa», un paese cioè, degno degli «eroi» che avevano dimostrato di poter essere. Paesi e popoli lontani (non solo geograficamente) dalle ragioni dell conflitto finirono per trovare in esso significati simili e all’inizio insospettabili. A cinesi, vietnamiti, indiani, senegalesi, giamaicani fu raccontato che il servizio prestato in favore di patrie non loro costituiva il primo capitolo di una futura emancipazione. Come il sangue versato per l’Impero potesse servire a liberarsi dal dominio coloniale era difficile da spiegare, ma nella ricerca di una spiegazione si misurarono non poche intelligenze anticoloniali.

Il caso Australia. Un caso a sé fu quello dell’Australia e della Nuova Zelanda, paesi in un certo senso di nuova indipendenza ma allo stesso tempo orgogliosissimi delle loro radici britanniche. Quella dell’ Anzac ( Australian and New Zealand Army Corps), il corpo di spedizione australiano e neozelandese inviato in Europa e in Medio Oriente, fu un’epopea amara, incentrata sullo sfortunato tentativo di sbarco a Gallipoli (8.000 dei 50.000 soldati dell’Anzac vi lasciarono la vita e con essi più della metà dei 3.000 soldati indiani di complemento. ). Ciò nondimeno quell’episodio assunse un ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale australiana e neozelandese. «A Gallipoli – ha scritto uno storico australiano – i soldati dell’Anzac offrirono una testimonianza del carattere degli uomini dell’Australia».

Nascita di una nazione. Sono parole interpretabili in vario modo, ma che colpiscono per l’assonanza con altre che furono pronunciate, sempre a proposito della prima guerra mondiale, ma riferite ad attori per molti aspetti diversissimi dai soldati dell’Anzac. Fu Camillo Bellieni, parlando della Brigata Sassari, a spiegare come il riconoscersi nella «atmosfera morale» del proprio reggimento, il voler «essere i migliori, i più solerti, i più audaci», tutto ciò che in altri tempi e in altre situazioni veniva chiamato spirito di corpo, potesse in certe condizioni risultare l’esperienza fondante di una nazione avviata a riconoscersi come tale. «La vita in comune – avrebbe scritto vent’anni dopo Emilio Lussu – le privazioni, i rischi le a morte in comune dovevano esercitare una forte influenza e creare una solidarietà fino ad allora sconosciuta fra i sardi». Pare improbabile che per la gran parte dei combattenti di Gallipoli o dell’altopiano d’Asiago quella esperienza assumesse, al momento, la ricchezza di significati che interpretazioni comunque successive (e politicamente orientate) avrebbero ad essa attribuita. Una immagine (in toto o in parte) sublimata dell’esperienza della trincea venne soprattutto da avanguardie politiche e culturali che ad essa legarono una forte attribuzione di senso. Rimane il fatto che quella ricchezza di significati venne trovata da molti di coloro che l’orrore di quella guerra aveva sperimentato in prima persona. Non solo: narrazioni strutturate e politicamente orientate della vita di trincea influenzarono sempre di più il racconto che i reduci facevano nelle piazze del loro paese e ai propri familiari.

Organizzare la memoria. Due fattori favorirono questo fatto. Il primo è che, anche continuando a raccontarla dal «basso», si sentiva il bisogno di dare un significato positivo alla propria esperienza in guerra. V’era poi la partecipazione alla vita pubblica che spingeva a organizzare la memoria secondo gli schemi suggeriti dall’ufficialità. Nel caso del movimento dei reduci sardi, un movimento realmente di massa confluito poi nel Partito sardo d’Azione, l’influenza politica esercitata dalle avanguardie si basò anche sulla loro capacità di presentare un racconto della guerra che, per quanto problematico e non del tutto elusivo, risultasse ricco di valori. Che poi si trattasse di valori nazionali diede ulteriore forza a quella narrazione.

Incarichi vacanti

Sanità nel baratro: nell’isola mancano 544 medici di famiglia

di Claudio Zoccheddu
Le nostre iniziative