La Nuova Sardegna

A voi Giancarlo Giannini: il grande attore torna in Sardegna e si racconta

di Walter Porcedda
Giancarlo Giannini
Giancarlo Giannini

Intervista all'interprete di celebri film che domenica 29 sarà a Martis ospite del festival “Ethno’s”. Un premio alla carriera per uno dei più importanti artisti del cinema italiano

27 novembre 2015
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MARTIS. Attore, doppiatore, regista. E inventore. Non molti sanno che Giancarlo Giannini, una carriera fatta di oltre centoquaranta pellicole, anni a calcare le tavole dei palcoscenici - che racconterà domenica alle 19 al centro culturale di Martis dove riceverà il premio alla carriera dal festival Ethno's - ha anche costruito oggetti e gadget elettronici, addirittura visionari. Come il giubbotto interattivo, “Musical Jacket”, usato nel 1992, nel film “Toys” di Barry Levinson con Robin Williams. E poi ancora, un guanto e un portachiavi avveniristici.

«Non amo molto parlare dei miei studi elettronici - dice un po’ schivo Giannini - In realtà era proprio il mio mestiere. Fin da quando, giovanissimo, sarei dovuto andare in Brasile per lavorare sui primi satelliti artificiali. Invece, per caso, finii a recitare. Mi sono divertito con l'elettronica fino a brevettare negli Stati Uniti il giubbotto finito poi a “Toys”. Roba di più di trenta anni fa come il guanto. Per me erano giochi. Diciamo la verità poi: non conviene più brevettare perché chiunque, cinese o giapponese, ti deruberà dell’idea cambiando solo piccoli elementi. Come accadde per il guanto che suona e manda onde. Mi fu trafugato. Feci anche causa, ma fu inutile perché poi le società falliscono. Con quel guanto, definito a quel tempo migliore giocattolo dell’anno, guadagnarono 25 milioni di dollari. Purtroppo lo seppi solo dopo».

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Tra l'inventore che doveva andare in Brasile e l'attore ci sono punti in comune?

«C'è la fantasia che li lega. Una volta quando si studiavano una radio o un televisore si doveva sapere tutto. Oggi non è più così. Se un apparecchio non funziona, prendi una scheda e la sostituisci. Allora si doveva pensare per inventare. Come fai a sapere cosa succede dentro una resistenza o un condensatore? Lo stesso accade per un attore quando deve costruire un personaggio. Come batte il suo cuore, quali sono i suoi sentimenti? Ti devi inventare tutto. La fantasia va bene per tutto. Sia per l'attore che per l'elettronico. Semplice no?».

I suoi studi quindi sono serviti come bussola per il lavoro da attore?

«In parte sì. Ma è la vita che deve essere vissuta a 360 gradi. Pure per farsi un piatto di spaghetti è meglio che si faccia bene, altrimenti è meglio lasciar perdere. Nell’elettronica è uguale. Marconi schiaccia un tasto e accende le luci in Australia. E' tutto magico. Come l'attore. Costui, in fondo, cos'è? Un magicien. Fa credere al pubblico cose di fantasia».

La scoperta del teatro avvenne con Shakespeare, interpretando il ruolo di Puck nel “Sogno di una notte di mezza estate”.

«In effetti a pensarci anche l’esordio fu fantasioso. In quell’opera ci sono le fate e i folletti. Era la prima volta che affrontavo il pubblico,ma avevo accanto attori straordinari come Gian Maria Volontè, Carla Fracci. Entrai così in un mondo davvero divertente. Puck è un personaggio funambolico quasi sempre portato in scena dalle donne. Quella fu, credo, una delle prime volte che il ruolo veniisse affidato a un uomo. Così decise il regista Beppe Menegatti. Ero giovanissimo. Vedevo che il pubblico rideva e si divertiva. Mi dissi: “Che bello fare questo lavoro!” E per di più ti pagano. E in effetti alla base di questo mestiere c'è il gioco. Non è un caso che i francesi usino la parola “jouer” e gli inglesi “play”, cioè giocare. Come da ragazzo a Carnevale quando ti travesti da Zorro o da Biancaneve e credi di esserlo. Il segreto è mantenere dentro quel fanciullino».

Eppure, pochi attori hanno in Italia la sua capacità di passare da ruoli comici a drammatici e persino introspettivi sfoderando una gamma di capacità attorali non comuni dovuto al lavoro di scavo fatto con il teatro.

«Sicuro. Tredici anni di teatro ricoprendo anche i compiti di capocomico. Sono stato davvero fortunato. Ho interpretato diversi personaggi perché, essendo un elettronico, sapevo poco di questo mestiere. Però ho capito che era utile diversificare, un po' come avviene in economia con gli investimenti, per non restare a terra. Mi son detto: interpretando tanti personaggi riuscirò a confondere talmente che nessuno saprà cosa sono io realmente. La fantasia è anche questo: saper travestirsi e cambiare. E’ importante lo studio naturalmente. I trattati di psicologia e psichiatria come i vari metodi, da Stanislavskj a Brecht. In realtà però non esiste un libro che insegna il mestiere. Te lo devi inventare da solo. Devi voler comunicare. Anche se fai tanti personaggi alla fine racconti sempre te stesso».

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Il primo grande successo al cinema fu "Mimì metallurgico" con un ruolo assai complesso. Quello di un operaio nel cuore del boom economico.

«Un film altamente politico. Per piacere aveva una struttura assolutamente divertente. Ma faceva anche pensare. Mimì inizia dicendo “no” al mafioso e termina che fa la campagna elettorale in suo favore»

In "Film d'amore e d'anarchia" interpreta in modo strepitoso l'anarchico sardo Michele Schirru usando un pastiche di dialetti del nord Italia.

«Il sardo per me era davvero ostico. Mescolai tre dialetti, il lodigiano, il bergamasco e il bresciano, inventando una lingua. Un contadino che parlava in modo completamente diverso dal Mimì. E' il personaggio che forse amo di più. A Cannes mi diedero il palmares come migliore attore. In giuria c’erano Ingmar e Ingrid Bergman».

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Un anno dopo un altro cult movie girato in Sardegna, “Travolti in un insolito destino”. Che ricordi ha della Sardegna di quegli anni?

«La Sardegna la conobbi da piccolo. Mio padre che lavorava nei cavi sottomarini mi portò con sé a nove anni tra Carloforte e Sant'Antioco. Ho un ricordo luminoso di quelle spiagge. C'erano stelle marine dal diametro di mezzo metro. Una natura straordinaria. Tornai trenta anni dopo per girare il film. Fu in una insenatura dove era difficile arrivarci. Era Cala Luna, un luogo magico. Lo scoprimmo dall'alto con l'aereo. Una spiaggia rosa con gli oleandri. Un paradiso».

Ha incontrato tanti registi famosi. Da Pasolini a Fellini. Da Zurlini a Visconti. Qualche ricordo particolare.

«Li ricordo tutti. Ho avuto la fortuna di lavorare con loro e conoscerli, la cosa bella era che da Fellini a Pasolini, nella realtà quotidiana, fossero persone semplicissime. Si divertivano a mangiare assieme spaghetti al ragù o il pane ferrarese. Semplici anche nel lavoro. Accettavano i consigli di tutti. Avevano capito che quel gioco di fantasia era bello. Nel lasso di tempo della lavorazione vivere con loro era condividere le proprie fantasie, un'esperienza unica. Per girare in modo geniale occorre essere particolarmente dotati. E’ stare soli davanti a un'idea e realizzarla. Quei geni erano Fellini, Rosi, Antonioni... registi che hanno lasciato i film migliori. Non vedo altri ora, capaci di rifare quello che hanno fatto loro».

Uno sguardo forse un po' severo con il cinema contemporaneo italiano.

«Non sono io ad averlo. D’altronde è tutto diverso. Il modo di produrre, come la tecnologia che sta cambiandoci la vita. Più di trentacinque anni  fa una sera andai da Fellini:  mi aveva battezzato il “pipistrello della notte”. Mi chiamava e io andavo. Gli facevo le fotografie e parlavamo. Quella notte, erano le quattro del mattino, conversando davanti a un piatto di spaghetti al ragù condito con del parmigiano che aveva fatto portare appositamente da Parma mi disse: “Giancarlo, guarda che il cinema ormai è morto”. Ma come morto? Gli risposi. E lui : “Vedrai. Durerà poco. Andremo al cinema come ad un museo. E forse non vedremo neanche più quel filo di fumo delle sigarette dello spettatore attraversare il raggio di luce che dal proiettore arriva sino allo schermo"».

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