La Nuova Sardegna

“L’Espresso”, sessant’anni di libertà

di VITTORIO EMILIANI
“L’Espresso”, sessant’anni di libertà

Il 2 ottobre 1955 primo numero. La storia d’Italia e del mondo nelle pagine del settimanale

01 ottobre 2015
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di VITTORIO EMILIANI

Quando il 2 ottobre 1955 esce il primo numero del nuovo settimanale diretto da Arrigo Benedetti c’è molta attesa. Benedetti ha raccolto un bel pubblico attorno al settimanale da lui creato a Milano subito dopo la Liberazione, “L’Europeo”, dalla cui direzione lo solleva per ragioni essenzialmente politiche Angelo Rizzoli nel maggio 1954. Ma la parte più viva e nobile della redazione l’ha seguito, Camilla Cederna in testa, in attesa di una nuova avventura. Che comincia poco più di un anno dopo fondendo nella nuova redazione i reduci dell’“Europeo” e quelli di un altro settimanale, “Cronache”. Da lì arrivano Giancarlo Fusco e Carlo Gregoretti, con Antonio Gambino che ne è il caporedattore e che quel ruolo avrà nel settimanale. Vicedirettore Eugenio Scalfari, che già collaborava all’Europeo e che, esperto di economia, a lungo sarà anche l’uomo dei conti.

L’Espresso nasce con un formato colossale, 40x55, se ho ben calcolato, valorizzando al massimo le foto, scelte con una sapienza straordinaria e le grandi inchieste di attualità. A cominciare da quella che connoterà il settimanale: “Capitale corrotta=Nazione infetta” firmata da Manlio Cancogni e dedicata alla speculazione immobiliare romana e vaticana ai tempi dei sindaci Dc. Un grande affresco che fa da pendant alle inchieste parallele e instancabili di Antonio Cederna sulle colonne del “Mondo”, creato e diretto da un “gemello” di Arrigo Benedetti, dai tempi di Lucca all’apprendistato con Leo Longanesi: Mario Pannunzio. Sono i due settimanali della borghesia laica intelligente e anche della sinistra, marxista o cattolica, più evoluta. Altre inchieste fondamentali: “I pirati della salute” sulle sofisticazioni, “Mafia e potere”, “La corporazione degli speziali”, un dettagliato “Rapporto sul vizio” di Mino Guerrini e altri. Nel 1956 il giornale fa circolare, primo in Italia, un volumetto che contiene il Rapporto Krusciov sui misfatti dello stalinismo, occultato per mesi da Togliatti. Un episodio personale soltanto per sottolineare la qualità di quel primo “Espresso”: collaboro ad una grande inchiesta di Camilla Cederna sulle “coree” degli immigrati meridionali e veneti nel Nord Milano. Aspettiamo il fotografo che deve arrivare dal mitico Bar Giamaica a Brera. È l’ancor giovane Ugo Mulas appena trentenne. Del resto le rubriche del settimanale sono tenute da firme d’eccezione: Massimo Mila per la musica, Alberto Moravia per il cinema, Sandro De Feo per il teatro, Paolo Milano per la letteratura, Bruno Zevi per l’architettura e così via. Il Lato Debole, rubrica deliziosa e graffiante, è illustrato dalla bravissima Brunetta. Il finanziatore principale è stato, ancora una volta, l’industriale più innovativo d’Italia, Adriano Olivetti. Il quale però deve presto cedere le proprie quote (a prezzi amichevoli) a Carlo Caracciolo, a Benedetti e a Scalfari perché i ministeri non gli comprano più calcolatori e macchine per scrivere. Comincia la grande e bella avventura di Carlo Caracciolo, poco oltre i trent’anni anche lui.

Su quell’“Espresso” la parte di costume è vasta, il servizio fotografico sullo spogliarello di Aiché Nanà al “Rugantino” fa epoca e apre la stagione della Dolce Vita. Mentre sulla tv che ormai spopola le strade di sera fa sempre più opinione un sarcastico Sergio Saviane. Ma la politica è tanta e scottante. Prima del centrosinistra c’è il drammatico luglio 1960 con la polizia che spara e semina morte a Reggio Emilia e a Palermo. Con Carlo Falconi e i suoi affreschi di vita in Vaticano l’avvento di papa Roncalli e del Concilio viene seguito con cronache, storie e commenti. Ma pure il fronte estero è tenuto benissimo con Isaac Deutscher, con K. S. Karol e con altri. Nel ’62 compare la testimonianza esplosiva di Solgenitsin sui Gulag.

Nel 1963 Benedetti, un maestro, lascia per dedicarsi alla letteratura. Subentra il cofondatore Eugenio Scalfari, il quale dirigerà “L’Espresso” per cinque anni, dedicando inchieste rischiose e documentate sulle scorrerie in Borsa di Giuffrè, Sindona e Virgillito, sulla crisi drammatica del luglio ’64 col Psi costretto a ridurre le proprie ambizioni riformatrici, e con «il tintinnio di sciabole» del possibile golpe De Lorenzo. Con un vero balzo delle tirature. L’opinione pubblica più qualificata è con “L’Espresso”. A Scalfari candidato e poi eletto alla Camera per il Psi subentra Gianni Corbi da sempre in redazione. Si preparano ormai il Sessantotto, poi l’autunno caldo sindacale e, subito dopo, la prima delle tante stragi, quella di piazza Fontana a Milano. Il settimanale è su queste vicende con molta presa e autonomia di giudizio. Troppa secondo certi questurini e magistrati milanesi. Dal momento che esso sbugiarda le “piste anarchiche” e concorre a scoprire quelle “nere”.

È cominciata nel 1970 la lunghissima direzione di Livio Zanetti, già inviato: durerà quasi quindici anni. Riforma grafica, il settimanale-lenzuolo diventa un agile tabloid e sull’onda della campagna a favore della legge sul divorzio le vendite salgono moltissimo. Tutte le leggi riformatrici di quegli anni nei quali imperversa il terrorismo con una scia di sangue che sembra interminabile vengono approvate sull’onda delle campagna dell’“Espresso” che poi ha per direttori Giovanni Valentini, Claudio Rinaldi (per quasi tutto il decennio ’90 in cui scoppia Tangentopoli), Giulio Anselmi, la prima donna direttore Daniela Hamaui, quindi Bruno Manfellotto (2010-2014) e l’attuale direttore Luigi Vicinanza. Tutti confermano la vocazione del primo “Espresso” ad essere la voce delle cause civili più mortificate e la rappresentazione dell’Italia che, nonostante lacci e mortificazioni, vuol crescere nella democrazia. Dagli anni dell’illusionismo berlusconiano a questi spesso non meno impastati di aria fritta del renzismo. Senza che nasca, per ora, una vera sinistra laica riformatrice.

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