La Nuova Sardegna

il racconto

Le bambine del Rifugio e le loro splendide suore-mamme

di Bianca Pitzorno
La scrittrice Bianca Pitzorno
La scrittrice Bianca Pitzorno

Sassari, il “Gesù Bambino” nel ricordo di una grande scrittrice che frequentò l'istituto negli anni '60

01 settembre 2015
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Il Rifugio di Gesù Bambino per le Bambine abbandonate è sempre stato una delle istituzioni più note ai sassaresi. Ne avevo notizie “neutrali” come tutti – anche se mio nonno Giovanni Antonio Pitzorno ne era stato il pediatra negli anni Trenta – fino a quando, nel 1963, ne varcai la soglia per un interesse personale. Per una serie di vicende più romanzesche di un romanzo dell'Ottocento una bambina a me carissima era finita a vivere tra quelle mura, dove sarebbe restata poco meno di cinque anni. Burocraticamente e legalmente niente mi legava a questa bambina né mi autorizzava ad avere contatti con lei, eppure la Superiora mi accolse come una persona di famiglia e mi permise di frequentare liberamente non solo la “mia”, ma tutte le bambine del Rifugio, che allora erano moltissime. Avevo libero accesso alla loro “casa” senza preavviso, a tutte le ore del giorno, in tutti i locali, come una giovane zia (allora ero giovane) e potei constatare di persona il clima informale di libertà e di grande amore che vi regnava.

Non ho parole per esprimere la mia stima per la Superiora, suor Irene Mameli di Olzai, una persona straordinaria dall’eccezionale carisma, dotata di enorme saggezza, della mente e del cuore. E per suor Teresa, la allora giovane suora campidanese che si occupava con pazienza e tenerezza delle più piccoline. Le bambine arrivavano a 18 mesi dal Brefotrofio, allevate “correttamente” dal punto di vista materiale, ma con tutti i disturbi derivanti dalla spersonalizzazione di un istituto grande e affollato. Al Rifugio venivano seguite una per una con affettuosa attenzione, suor Teresa passava ore e ore davanti a un seggiolone, insegnando alla bambina che vi sedeva, nutrita sino ad allora con pappe liquide, a masticare pezzetti di mela. Le nuove arrivate trascorrevano la maggior parte del tempo in braccio a qualcuno, anche a me se ero in giro; per loro nei dormitori c’erano culle fornite di veli e fiocchi e diluvi di baci. Suor Irene non permetteva che venissero lasciate piangere neppure un momento. L'atmosfera era davvero quella di una grande famiglia.

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Continuai a frequentare il Rifugio anche dopo che la “mia” bambina fu tornata a vivere con la sua famiglia. Venivo invitata a conoscere e a tenere in braccio le nuove arrivate, ad aiutare nello studio le più grandette, ad accompagnare al Museo quella che ne aveva bisogno per una ricerca. Una delle ossessioni della Superiora era quella di farle studiare tutte, di far raggiungere a ciascuna un diploma che le permettesse l’indipendenza economica e una professione dignitosa, non quella di semplice “domestica bene addestrata” a cui le destinava lo statuto del Rifugio al momento della sua fondazione. Potrei raccontare decine di aneddoti con protagonista Suor Irene, che incitava le sue “figlie” allo studio, le strapazzava se battevano la fiacca, ma lottava in loro favore come una tigre quando aveva sentore che alcune insegnanti delle scuole pubbliche da loro frequentate le trattavano con scarsi attenzione e rispetto in quanto provenienti da un istituto. Di fatto la maggior parte di loro divenne infermiera professionale.

Nel corso degli anni, dopo essermi trasferita a Milano, restai sempre in contatto con Suor Irene, anche quando per problemi di salute e d'età la Superiora lasciò il Rifugio. La sua amicizia, i suoi consigli, mi furono sempre preziosi, la sua conversazione arguta una fonte di vero piacere.

Vidi come negli anni le sue bambine cresciute continuavano a rivolgersi a lei come a una madre, in tutte le circostanze della loro vita. Suor Irene è morta qualche anno fa, e ho avuto la fortuna di poterla salutare nei suoi ultimi giorni, sofferente ma ancora lucidissima, arguta e ironica, circondata dalle sue “figlie” che le sono rimaste accanto fino all'ultimo. Suor Teresa invece, carica d’anni, è rimasta sulla breccia, a far da madre alle bambine del Rifugio accanto alle nuove suore vincenziane che col tempo hanno sostituito le più anziane. E a fare da riferimento alle “grandi”, che hanno la loro vita fuori, lavoro, famiglia, figli e alcune nipoti, ma che ancora considerano e frequentano il Rifugio come la casa amata della loro infanzia. Molti cambiamenti però sono sopraggiunti nella organizzazione e amministrazione del Rifugio, che in questi giorni passa in mani esclusivamente laiche. Il 31 agosto le ultime quattro religiose, tra cui suor Teresa, sono partite destinate dall’Ordine ad altre sedi. Non ho elementi per dire quanto mancheranno alle bambine che oggi vivono al Rifugio, ma so di certo che le “grandi” ne sono profondamente addolorate. Sono loro, con le quali sono rimasta in quasi mezzo secolo legata da profonda amicizia, che mi chiedono di poter esprimere dalle pagine della Nuova il loro saluto, la loro riconoscenza, il loro amore, alle donne che sono state per loro delle madri nel senso più completo del termine.

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