La Nuova Sardegna

«Ecco le mie fiabe per adulti»

di Fabio Canessa
«Ecco le mie fiabe per adulti»

Intervista con l’attore, nell’isola con lo spettacolo “Racconti d’estate”

08 agosto 2015
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In un’edizione del Festival dei Tacchi che guarda all’Odissea, la presenza di Ascanio Celestini rievoca la forza della tradizione orale simboleggiata dalle opere di Omero. La passione dell’attore, scrittore e regista romano per i racconti trasmessi oralmente è nota. Con le sue riconosciute capacità affabulatorie emoziona e fa pensare, partendo spesso da piccole storie recuperate dalla narrazione orale. Protagonista anche nel suo ultimo spettacolo, “Racconti d’estate - fiabe per adulti che volevano essere bambini cattivi”, che Celestini ha portato ieri in scena a Osini per il Festival dei Tacchi organizzato da Cada Die Teatro e proporrà stasera anche a Montresta (alle 21 all’anfiteatro) per la rassegna L'isola del teatro e l'isola raccontata promossa dal Teatro del Sale.

Uno spettacolo che parte dal racconto di alcune barzellette. Come mai questa scelta particolare?

«Le barzellette rappresentano un patrimonio della tradizione che è ancora completamente orale. Esistono sì dei libri di barzellette, però in realtà oltre a essere pochissimi, non fanno ridere. La barzelletta è tale perché c'è qualcuno che la racconta oralmente. Non esiste in fondo un autore, la barzelletta c'è perché viene raccontata e chi la racconta è in parte co-autore rispetto a un autore di cui, se c'è, non sappiamo più niente. Scomparso dietro questa piccola opera d'arte che è la barzelletta. Poi un’altra cosa importante da sottolineare è che, come avviene in generale nei racconti della tradizione orale, le barzellette cambiano nel tempo. Una barzelletta su Giolitti non viene più raccontata adesso. Cambiano i personaggi. Magari oggi sono Renzi, Grillo o Berlusconi».

Non solo barzellette, però. Lo spettacolo si evolve poi con il racconto di storie di diverso tipo.

«Parto da queste storielle per poi entrare in un campo diverso che è quello delle fiabe, per chiudere poi con racconti più moderni. Dipende molto dalla serata, dal tipo di spettatori che ho davanti. Ci sono dei posti in cui ho fatto lo spettacolo in piazza con molti bambini presenti e ho raccontato quasi tutta la serata storie della tradizione. Altre volte, in una situazione più raccolta ho parlato delle storie di mio padre, di guerra, e altre ancora mi è sembrato fosse più sensato portare racconti che in parte ho pubblicato nel libro “Io cammino in fila indiana” e non avevo mai fatto in teatro».

Viene spesso in Sardegna. C’è qualche racconto ispirato o legato all’isola?

«Magari non direttamente, ma indirettamente sì. Penso alle prime storie, in apertura dello spettacolo, legate alla tradizione orale. In particolare “I racconti dello sciocco” dove c'è un personaggio che non capiamo se finge di essere sciocco, se lo è davvero, se fa delle sciocchezze solo per caso e gli va bene. Sono racconti diffusi un po’ in tutto il mondo, ma ne troviamo la traccia più evidente proprio nel Mediterraneo, per cui in una maniera o nell'altra sono storie che toccano anche la Sardegna».

Racconta storie in molti modi, anche con il cinema. A settembre presenterà alla Mostra di Venezia il suo nuovo film. Di cosa parla?

«Si intitola “Viva la sposa” e rispetto al precedente, “La pecora nera”, che nasceva da uno spettacolo teatrale e da un libro, è un soggetto originale. L’ho scritto pensando direttamente alla sceneggiatura. La storia è ambientata nel quartiere di Roma il Quadraro e in pratica abbiamo girato lì tutto il film, in poche centinaia di metri. Racconta una maniera fatalista nell'affrontare la vita, senza grandi speranze di poter cambiare né la propria vita, né quella degli altri. Un modo di vivere alla giornata che però comporta il rischio di finire ai margini della società».

Il fatalismo è un atteggiamento che viene spesso associato ai sardi. Lei, osservatore esterno, cosa ne pensa?

«Non lo so, sono venuto diverse volte qua in Sardegna, ma non ho mai avuto questa impressione in particolare rispetto ad altri posti. Forse il fatalismo appartiene un po’ a tutti quanti in Italia».

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