La Nuova Sardegna

Nella terra della ’ndrangheta il volto più oscuro dell’Italia

Intervista con Francesco Muzzi: «Abbiamo girato ad Africo, roccaforte dei boss Ma il rapporto con quella comunità è stato positivo, si sono presi la parola»

29 luglio 2015
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INVIATO ALLA MADDALENA. La forza di un film drammatico che coinvolge per tutta la durata della storia, si avverte forse ancora più chiaramente quando lo schermo si fa nero e cominciano a scorrere i titoli di coda. Preziosi ed emozionanti attimi di silenzio e riflessione che sanno regalare opere come “Anime nere”, film pluripremiato (tra gli altri riconoscimenti nove David di Donatello) diretto da Francesco Munzi che racconta la storia di tre fratelli vicini alla ’ndrangheta. Il regista romano è uno degli ospiti del festival “La valigia dell'attore” e ieri alla Maddalena è stato protagonista di un incontro con il pubblico di mattina, prima di ricevere nel pomeriggio un riconoscimento speciale da parte del Comune. Una giornata intensa durante la quale ha trovato comunque il tempo per un'intervista.

Munzi, da Venezia a Venezia. Notizia di questi giorni, sarà uno dei giurati del concorso a un anno dalla presentazione al Lido di “Anime nere”. Cosa si aspetta da questa esperienza?

«Sono molto contento avere questa possibilità, una cosa che non ho mai fatto a questo livello, per un festival così importante. E sono stato felicemente sorpreso dalla compagnia (in giuria tra gli altri maestri come Hou Hsiao-hsien e Nuri Bilge Ceylan, ndr). Sarà non solo un divertimento, ma anche un lavoro per il quale darò tutto me stesso».

Ma che spettatore è Francesco Munzi?

«Man mano che vado avanti con gli anni, il mio aspetto cinefilo è presente ma sempre più introiettato. Cerco di avere sempre meno pregiudizi, di avere un rapporto diretto, emozionale con quello che guardo. E anche quando progetto un mio lavoro, penso sempre a un film che vorrei vedere. Senza troppi calcoli, troppi intellettualismi sul cinema».

Dal risultato di “Anime nere” un metodo che funziona. Si sarebbe mai immaginato un percorso di così grande successo per il film?

«È stato un percorso sorprendente, inimmaginabile. Non solo Venezia, che è stato il battesimo, ma dopo Toronto, la vita che ha avuto all'estero, uno dei film italiani più venduti dell'anno. E poi siamo tornati con i David e i Nastri. Ma mentre lo facevo pensavo solo a finirlo, nemmeno un momento al percorso che avrebbe avuto. È stato un film molto complicato da fare».

Girato in una zona difficile. Com'è riuscito a farsi accettare dalla comunità locale, a coinvolgerla nel progetto?

«Io sono partito da un libro (di Gioacchino Criaco) che parla di una famiglia dell’Aspromonte e mi sono subito reso conto dei miei limiti di conoscenza di quel mondo. Sono quindi voluto andare in questo paese, Africo, considerato uno dei più criminali d'Italia, e ho cercato di coinvolgere le persone. Ci siamo incontrati sul piano della finzione, della recita del film. Ho detto loro che non volevo fare cronaca, un documentario, denuncia, ma che volevo raccontare una storia. Dopo una iniziale chiusura, abbiamo visto che la popolazione pian piano voleva dire la sua. E alla fine, anche se attraverso un lavoro di finzione abbiamo detto forse più verità di quella che molto spesso si riesce a dire nei documentari».

Un lavoro che fa venire in mente quello di un regista come Vittorio De Seta.

«Ringrazio per l'accostamento. Sicuramente c'è qualche punto di contatto soprattutto nel rapporto con il territorio, con gli attori, che sono mescolati, professionisti e non. E i non attori hanno dato moltissimo al film in termini di verità, di realismo, di dialetto».

A proposito di attori, come ha scelto i protagonisti Fabrizio Ferracane, Peppino Mazzotta, Marco Leonardi?

«Abbiamo utilizzato un metodo magari schematico, ma che alla fine si è rivelato giusto. Quello di scegliere attori che provenissero dalla Calabria e più in generale dal Sud, perché volevo attori che fossero davvero credibili nell'uso del dialetto».

Se avesse potuto dirigere Volonté al quale è dedicato il festival “La valigia dell'attore”?

«Volonté era un attore molto attento, mimetico, capace di trasformarsi. Una tipologia di attore sempre più rara. Al di là dei discorsi che si fanno, quel tipo di applicazione, di intelligenza, di conoscenza del lavoro, della scrittura è raro. L'attore in genere pensa al proprio ruolo senza guardare troppo al contesto. Volonté invece era come un attore-regista, almeno di sé sicuramente»

Come Volonté anche lei ha un legame speciale con La Maddalena. Com'è nato?

«Vengo in Gallura da quando avevo cinque anni. Prima con mio padre, poi con gli amici, poi ho trovato qui anche la mia compagna. È qualcosa di personale, che sento molto il rapporto con La Maddalena e la Sardegna. Ho anche tanti amici sardi».

Anche del mondo del cinema?

«Sì. Per esempio Salvatore Mereu. Ho studiato con lui al Centro sperimentale di cinematografia e abbiamo anche abitato insieme un po’ di anni. Siamo ancora molto amici».

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