La Nuova Sardegna

fotografia

Vivian Maier al Man, la poesia della strada di un’artista senza volto

di Paolo Curreli
Vivian Maier
Vivian Maier

«Restituire il posto nella storia alla tata con la fotocamera». La curatrice Anne Morin racconta l’esposizione di Nuoro

13 luglio 2015
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INVIATO A NUORO. Inaugura oggi l’attesa mostra “Vivian Maier Street Photographer” che Lorenzo Giusti, direttore del Man, si è aggiudicato in anteprima nazionale, aperta fino al 18 ottobre.

Una mostra ricchissima con 120 foto, provini a contatto inediti e filmati in super 8 con un arco temporale che va dal 1952 all’85. Un viaggio nell’universo visivo di questa tata con la macchina fotografica che il film di John Maloof ha reso nota la mondo. Un film che però ha forse calcato troppo la mano sull’aspetto della vita marginale e stravagante della Maier. Questa mostra ci restituisce la figura di un’artista, – per quanto autodidatta – impegnata anche nella ricerca del formalismo, non solo una vorace street photographer, ma una donna che avrebbe voluto far diventare mestiere la sua passione per l’immagine. Dai suoi archivi si scoprono anche portfolio che lei, evidentemente, avrebbe voluto proporre, libri e la frequentazione delle grandi mostre delle star della fotografia mondiale.

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Eppure il sentirsi “altro” dal mondo, straniera col suo accento francese, senza parenti e affetti noti, sembra influire sullo sguardo con cui Vivian guarda l’universo.

Per la curatrice Anne Morin Vivian Maier :«È stata una persona molto singolare che ha vissuto nella periferia della società, con una forte empatia per gli ultimi e una antipatia per le classi alte. Di origine francese, perde molto velocemente le sue radici e il contatto con la sua famiglia quando si stabilisce definitivamente a Chicago nel 1955 –racconta la Morin –. Non si sa nulla delle sue relazioni, dei suoi amici o dei suoi amanti, era una persona molto solitaria, chiusa in sé stessa, che intratteneva una relazione con il mondo che passava esclusivamente attraverso la fotografia. Era più interessata al gesto fotografico che all’immagine in sé, e per questo ha lasciato un gran numero di film e foto che non sono stati mai sviluppati». Un aspetto interessante a cui è dedicata una sezione della mostra sono i suoi autoritratti. Vivian si fotografava spesso, ma sempre attraverso un vetro o uno specchio, come a cercare una sua identità, una prova della sua presenza nel mondo.

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«Effettivamente visto la sua condizione e l’epoca in cui ha vissuto Vivian Maier è stata una figura condannata all’invisibilità, all’anonimato, e in un certo modo al non-riconoscimento – conferma Anne Morin davanti alle immagini della mostra –. Aveva perduto la sua identità e faceva un lavoro modesto. In una delle registrazioni che usava come appunti vocali, confessa di aver utilizzato l’autoritratto per sapere chi era e come un modo per trovare il suo posto nel mondo». L’idea che ha guidato Anne Morin nella cura di questa mostra è restituire all’artista americana il suo posto nella storia. «Oggi il nostro obbiettivo è far conoscere l’opera di Vivian Maier, proiettarla nella storia della fotografia e restituire a questa baby sitter, a questo personaggio privo di volto, la sua identità, di farla esistere sia come Vivian Maier che come fotografa, al fianco dei più grandi della street photography americana come Robert Frank, Diane Arbus e Helen Levitt».

Anne Morin ha scelto di dividere l’esposizione in sezioni: «Ho capito molto in fretta dall’insieme dei suoi lavori come Vivian Maier abbia lavorato in modo ricorrente su un certo numero di tipologie e di soggetti: il mondo dell’infanzia, che era tutta la sua vita, la vita nelle strade, il ritratto, l’autoritratto che punteggia tutto il suo percorso fotografico,i provini a contatto, il colore, al quale arrivò negli anni 60 e poi i suoi film Super 8, che ci restituiscono il suo modo di vedere il mondo.

Questa mostra ci da una visione panoramica della sua opera colossale, immensa e indispensabile».

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