La Nuova Sardegna

De Gesu lascia l’isola: «I detenuti in 41 bis non portano la mafia»

di Alessandra Sallemi
Gianfranco De Gesu
Gianfranco De Gesu

Il provveditore dei penitenziari sardi si trasferisce a Roma dove è a capo di una delle direzioni del ministero della Giustizia. Sul nuovo istituto di Uta: "Bisogna fare in modo che la distanza dal capoluogo non scoraggi le forze sociali a contribuire ai programmi di rieducazione"

09 luglio 2015
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CAGLIARI. I mafiosi nelle carceri sarde non vengono per scelta dell’amministrazione penitenziaria ma per un comma del secondo pacchetto sicurezza del governo Berlusconi (2009) che indica la necessità di inviare i detenuti del 41 bis «preferibilmente in aree insulari». Quella legge fu firmata anche da parlamentari che, adesso, protestano a ogni arrivo di malavitosi da regime di alta sicurezza. Lo dice in chiaro Gianfranco De Gesu nel lasciare l’incarico di provveditore dell’amministrazione penitenziaria a Enrico Sbriglia, che viene dal Triveneto e sarà reggente.

Ieri De Gesu ha accettato di fare un bilancio di quattro anni in Sardegna, dove ha chiuso vecchi istituti (San Sebastiano a Sassari e Buoncammino a Cagliari) per aprirne di nuovi (Bancali e Uta) oppure ha chiuso non senza sofferenza istituti che non reggevano alle nuove necessità del risparmio amministrativo (Macomer e Iglesias). Nel suo curriculum ci sono anche la direzione di Palmi e dell’Ucciardone. Sulla mafia, insomma, non improvvisa: «La mafia va dove ci sono soldi, non le carceri. I mafiosi bisogna allontanarli dalle zone dove esercitano la loro influenza. In Sardegna ce ne sono da anni e non c’è riscontro a ciò che qualcuno teme, vale a dire che le famiglie si spostino dove ci sono le carceri del 41 bis».

A proposito di spostamenti De Gesu, chiamato a una delle direzioni generali del ministero della Giustizia (edilizia penitenziaria e approvvigionamenti di beni materiali), segnala il problema Uta: «La legge italiana affida la rieducazione anche alle forze sane della società, non vorrei che la distanza (20 chilometri) fosse una scusante per non fare. La direzione di Uta compie ogni sforzo per garantire le attività, pochi sanno che ogni giorno alcuni detenuti raggiungono la Procura per il progetto sulla digitalizzazione degli uffici». C’è un’idea da sviluppare: «A chi chiederà spazi a Buoncammino per attività culturali, si può proporre di replicare l’iniziativa a Uta».

Nell’ora del congedo, al dirigente piace sottolineare che uno studio universitario sulle recidive dopo la detenzione dimostra che in Sardegna sono la metà rispetto al resto d’Italia, segno anche, secondo De Gesu, di quel che fanno ogni giorno volontari e dipendenti dell’amministrazione. Le colonie penali (Is Arenas, Mamone, Isili) hanno una produzione agricola da migliaia di euro l’anno che contribuisce a finanziare progetti di reinserimento in tutta Italia. Sulle colonie penali, che esistono solo qui: «Richiedono una gestione accurata, abbiamo scelto di specializzare gli istituti e di non accettare arrivi indiscriminati: chi arriva in Sardegna - dice De Gesu – è già destinatario di un progetto trattamentale. Ottenerlo è stato un successo, possibile anche grazie ai sindacati».

Non è lontano il ricordo dell’omicidio avvenuto a Is Arenas dopo l’arrivo di cento detenuti inviati solo per alleggerire un carcere della penisola. Non è la nazionalità il problema, si è arrivati ad averne anche 90 diverse. È spagnolo il detenuto che, tornato a casa, ha avviato un’azienda con l’apicoltura imparata in Sardegna. Infine una parola sul personale: 600 agenti sardi sono tornati, ma, dice De Gesu: «l’organico è ancora sottodimensionato, avrei voluto farne rientrare di più. E poi avrei voluto lasciare un direttore per ogni struttura invece ce ne sono sei e gli istituti sono dieci».

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