La Nuova Sardegna

Bandito-gentiluomo, mito finito nel fango

di Piero Mannironi
Bandito-gentiluomo, mito finito nel fango

Negli anni Sessanta Mesina divenne un eroe quasi romantico. Poi arrivò l’inesorabile declino

08 luglio 2015
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di Piero Mannironi

«Ho ucciso solo una volta - disse anni fa Graziano Mesina - e l'ho fatto per vendicare mio fratello». In quelle parole si nasconde forse l'origine profonda di quel sinistro carisma che ha fatto di Grazianeddu il mito di una stagione convulsa e ribollente del banditismo sardo. Di lui si aveva l'immagine del fuorilegge beffardo e insolente che sfidava il sistema, ma che in fondo applicava un suo codice di comportamento nel quale non era prevista la violenza. E infatti Mesina si vantava: «Non ho mai torto un capello a un ostaggio». Quasi a confermare la sua immagine di bandito-gentiluomo. E questo era senz'altro vero perché nel racconto dei suoi ospiti all'Hotel Supramonte non c'è mai stata traccia di violenze.

Quell'unico delitto ammesso, dunque, era quasi l'adempimento di un "dovere", perché rientrava nel rispetto delle regole feroci imposte dal sistema giuridico consuetudinario barbaricino. E quell'omicidio era la sua condanna pubblica, l'origine della sua dannazione, della sua folle fuga verso un destino segnato. Da qui era nata una sorta di indulgenza nei suoi confronti, il riconoscimento di una diversità.

Può sembrare oggi sconcertante, ma in quei roventi anni Sessanta il mito Mesina riuscì a creare una rimozione collettiva della censura morale per i suoi reati. Incredibilmente sfuggiva la percezione dell'essenza violenta del furto della libertà in cambio di danaro. Un baratto nel quale era impossibile trovare qualcosa di nobile o di giustificabile: solo sopraffazione e volgare ricatto.

Chi aveva capito molto bene Mesina e quella bolla di false convinzioni che lo circondava era stato Antonio Serra, poliziotto acuto e profondo, cacciatore implacabile di latitanti: «I giornali e le tv hanno costruito negli anni Sessanta il mito di Mesina. Ne hanno fatto quasi un eroe romantico, un ribelle che istintivamente combatte contro un sistema ingiusto. Il guaio per Mesina è che alla fine anche lui ha finito per crederci e quel ruolo è diventato la sua prigione. Una prigione dalla quale neppure lui, il re delle evasioni, riuscirà mai a scappare». E il mito col tempo si è progressivamente sbriciolato. Le avventure di Mesina nelle bische e nei night della “Milano da bere”, insieme a Turatello e ad Angelo Epamindonda il Tebano, raccontano infatti un uomo lontanissimo dallo stereotipo del “balente”. E poi i “pasticci” nelle pieghe del sequestro Kassam, per finire alle accuse di traffico di droga. Un reato che ha trascinato il mito nel fango della ordinaria criminalità

E adesso ecco l’accusa di essere il mandante di un omicidio per una questione di soldi. Lui, dunque, un volgare assassino. Certo, la storia dovrà essere accertata e approfondita. Si dovrà capire se Grazianeddu si è accusato di quel delitto per un peccato di vanità, per accreditarsi con qualcuno come fuorilegge duro e spietato, o se ha detto la verità.

Ma i dubbi su quanto ha detto sono legittimi perché Santino Gungui era un uomo che si trovava nell’epicentro di quella spaventosa guerra familiare conosciuta come la prima faida di Mamoiada. E in quei confini di sangue la sua morte era stata archiviata.

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