La Nuova Sardegna

Quegli undici erano un sogno Il calcio di un altro mondo

di COMUNARDO NICCOLAI
Quegli undici erano un sogno Il calcio di un altro mondo

“L’isola dei giganti”di Matteo Bordiga. Gli eroi del Cagliari raccontano lo scudetto Da Gigi Riva ad Angelo Domenghini, testimoni di un football che non c’è più

20 dicembre 2014
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Pubblichiamo il ricordo di Comunardo Niccolai contenuto nel libro “L’isola dei giganti” (Cuec, 272 pagine, 15 euro) di Matteo Bordiga.

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di COMUNARDO NICCOLAI

Sono sbarcato in Sardegna nel lontano 1962, ma… non a Cagliari. La mia avventura isolana è partita da Sassari, quando ero poco più che un bambino. Non avevo neanche sedici anni. Fui acquistato dalla Torres dopo essere stato opzionato dal Bologna, che mi aveva fatto un provino superato brillantemente ma poi mi aveva rispedito a casa, perché delle visite mediche sembravano evidenziare un piccolo problemino al cuore. Una roba da niente, una specie di soffio che non significava nulla. Nella mia lunga carriera non ebbi mai nessun tipo di disturbo legato alla presunta anomalia cardiaca. Allora – e posso dire di essere arrivato in Sardegna solo grazie a questa “svista” dello staff medico del Bologna – tornato a casa rifeci tutti i controlli e mi chiamò la Torres, a cui fui segnalato da tale Dino Incerpi, detto “il Penia”, che faceva l’osservatore in Toscana per conto della società sassarese. Non esitai ad accettare: era la mia grande occasione di cominciare a giocare a calcio. Giunto a Sassari rifeci una terza volta tutti gli accertamenti, andò tutto bene e fui tesserato. (...).

La Sardegna? E come potrei mai definirla? Una meraviglia, un incanto. Fin dall’inizio ho trovato delle persone splendide sia a Sassari che a Cagliari e mi sono ambientato subito, senza problemi. I sardi sono gente squisita… e se poi sai entrare nel loro cuore ti amano senza riserve. Infatti in Sardegna ho messo le radici: ci sono rimasto fino al 1976, totalizzando oltre 200 presenze con la maglia del Cagliari. Mi sono sposato in Toscana, ma i miei figli sono nati entrambi a Quartu Sant’Elena.

Nel 1964, quando da Sassari mi trasferii definitivamente a Cagliari, trovai una squadra appena salita in serie A dopo una bella cavalcata in B e ancora in fase di costruzione. La mia storia in rossoblù iniziò proprio, simbolicamente, nel primo storico campionato di A, sotto la guida di Arturo Silvestri. Puntavamo a salvarci, ma facemmo un campionato più che lusinghiero, finendo settimi. Da lì cominciò la grande marcia verso lo scudetto.

Se c’è un piccolo rimpianto, un cruccio personale legato alla Sardegna… beh, è proprio il fatto di non esserci rimasto a vivere. Quando ho chiuso la carriera, nel 1978, sono tornato a Pistoia, dove avevo la mia famiglia. Ma sinceramente, col senno di poi, me ne sono un pochino pentito. In Sardegna si stava bene, come dei pascià. (...)

Nel Cagliari la mia posizione è sempre stata quella dello stopper. Figura ormai defunta nel calcio attuale; prima corrispondeva al marcatore centrale che si “preoccupava” del centravanti avversario. Come interpretavo il ruolo? Eh, Scopigno non è che mi lasciasse molta libertà: non potevo schiodarmi dalla difesa, perché a quell’epoca difficilmente gli attaccanti centrali rientravano a centrocampo e quindi bisognava rimanere belli bloccati, in posizione. Quasi mai superavo la metà campo. Con tutto che avevo consegne così rigide, qualche golletto l’ho pure fatto. Oltre alle autoreti . Salivo ogni tanto sui calci piazzati o su qualche scambio che partiva dalla difesa. Giocavo con decisione, ma senza cattiveria. Le espulsioni che ho collezionato, infatti, non erano mai dovute a interventi violenti, ma quasi sempre alle proteste. A quei tempi gli arbitri avevano una specie di timore reverenziale nei confronti dei fuoriclasse “intoccabili”, e difficilmente li cacciavano anche se quelli li massacravano di insulti. Si lasciavano dire le peggio cose e non facevano una piega. Ben altro trattamento riservavano ai giocatori “normali”, ai manovali del pallone come me.

Una volta a Verona Clerici su un cross alto andò su con la mano e fece gol. Io, sbalordito, siccome ero capitano mi avvicinai al direttore di gara e gli dissi: “Scusi, ma che fa, lo dà? Non ha visto che l’ha presa di braccio?”. E lui, impassibile: “No, no”. E io: “Va bene, allora vediamo stasera alla moviola chi ha ragione”. Espulso con tre giornate di squalifica. Non dovevi parlare mai di moviola, sennò uscivano di testa. In compenso Gigi Riva a Milano contro l’Inter, su un presunto mani di Facchetti in area, ne disse all’arbitro di cotte e di crude. Provvedimenti? Ma figuriamoci… Era Riva, anche se lo stava calzando e vestendo come un pivellino. Arrivai io e, pacato, feci: “Ma signor arbitro, mi sembra che la cosa sia evidente”. Fuori, subito. Del resto succede anche oggi: c’è chi si può permettere di protestare e chi no.

Tornando al mio ruolo in campo, l’impostazione del gioco del Cagliari partiva già dalla linea dei marcatori. Cominciavamo a costruire l’azione da dietro, ma io non partecipavo più di tanto a questa fase: avevamo Cera, che quando, dopo l’infortunio di Tomasini, era passato a fare il libero se la cavava benissimo, e orchestrava tutto al meglio. D’altronde era nato mediano. Io mi limitavo ad appoggiare al compagno più vicino. Poi la palla passava a Greatti, che faceva da congiungimento tra il centrocampo e l’attacco, e anche a Nené, che spesso rientrava e aveva due piedi d’oro. Tutta gente che il calcio lo giocava da Dio.

© 2014 Cuec Editrice

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