La Nuova Sardegna

Un commissario e un rabbino insieme alla fine del mondo

di Alessandro Cadoni
Un commissario e un rabbino insieme alla fine del mondo

“Questi sono i nomi”, dalla penna di Tommy Wieringa un nuovo libro dell’Esodo Sette misteriosi profughi che vagano in una steppa diretti verso Occidente

20 ottobre 2014
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La steppa è un deserto ostile: uno scenario post-apocalittico calcato da sette personaggi, profughi e migranti, protagonisti di Questi sono i nomi di Tommy Wieringa (Iperborea, 336 pagine, 17 euro). La narrazione, nella prima parte, si alterna in capitoli all’apparenza indipendenti. Dalla steppa si passa a Michailopoli, città d’invenzione, tra remote rovine sovietiche. Pontus Beg è commissario d’una polizia corrotta e violenta. Attributi, questi, che sarebbero pure suoi, se non fosse un poco più saggio – meno animalesco – di altri, abitato da un barlume di umanità annegata nella solitudine. L’amore è un ricordo di gioventù che accompagna il pensiero dell’infanzia campestre, di una sorella che non vede più. Canticchia una canzone yiddish, sola eredità materna, senza capirne le parole. Da qui, indaga sulle sue possibili radici ebraiche, che colmano il vuoto, aprendo un’illusione.

Quando giunge l’Inverno, le due storie si intrecciano. I vagabondi, in agghiacciante veste scheletrica, arrivano a Michailopoli e finiscono – migranti clandestini – in gabbia. Il mistero su chi siano questi fantasmi viventi riempie la cronaca cittadina. Beg, ormai assiduo frequentatore della Torah e coinvolto in dispute teologiche con un rabbino, vede in controluce un inquietante parallelo biblico: i profughi – arrivati in città portando con sé, in macabro rituale, la testa di uno di loro – sono come gli ebrei dell’Esodo che volevano dare a Giuseppe sepoltura nella terra di Canaan.

La prosa di Wieringa è secca, stringata, con prevalente passo paratattico, come del resto il modello biblico. Ma proprio a proposito del modello si rivela una debolezza, l’unica – mi pare – di un romanzo ambizioso e solido: la schematicità delle analogie, la necessità di spiegare – un poco didascalicamente – i rapporti di prefigurazione tra i fatti biblici e il compimento destinale dei personaggi-fantasmi.

Al contempo, è la traccia stessa di queste analogie a rendere il romanzo complesso e strenuamente attuale. Nelle dispute teologiche Beg non capisce come l’Eterno possa aver scelto un solo popolo, ostacolando chi possa frapporsi alla sua salvezza (si pensi alle piaghe); sa inoltre che anche in una comunità segregata o in fuga può allignare la mala erba dell’intolleranza (come succede tra i sette profughi).

Per finire, gioca a scacchi col rabbino, come il cavaliere del «Settimo sigillo» di Bergman, che vuol guadagnare tempo sfidando la Morte: ma non per salvare sé stesso. Come il lettore scoprirà alle ultime pagine, è per questo motivo che, in attesa della Primavera, Beg, ugualmente, temporeggia.

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