La Nuova Sardegna

Storia di un popolo di cantori Vocalità in salsa barbaricina

di Luciano Piras
Storia di un popolo di cantori Vocalità in salsa barbaricina

“I miei canti. Storia e spartiti della coralità di scuola nuorese” Alessandro Catte firma un volume che è un viaggio in un universo musicale

03 ottobre 2014
5 MINUTI DI LETTURA





NUORO. «Il coro non è solo musica, è vita, è parte di noi nuoresi». Senza alcun dubbio, Alessandro Catte dice che «per chi vive in questa città, si pongono due scelte: amarlo o odiarlo. Non esiste via di mezzo, il coro è ovunque. E chi non lo ama lo deve subire. È così».

È così allora che Nuoro capoluogo di provincia è la Città dei cori per antonomasia, vista l’altissima concentrazione di formazioni canore, record italiano probabilmente, con ben tredici gruppi attualmente attivi a fronte di una popolazione residente di 36mila abitanti. «Sia chiaro – precisa il maestro Catte –, la coralità di ispirazione popolare non l’abbiamo inventata noi, ma certamente Nuoro gioca un ruolo fondamentale nella sua nascita, evoluzione e divulgazione nell’intera isola». Classe 1969, cantante, direttore di coro, compositore, Catte ha appena dato alle stampe un libro destinato a lasciare il segno. “I miei canti”, sottotitolo: “Storia e spartiti della coralità di scuola nuorese”, uscito fuori collana con le edizioni Il Maestrale (368 pagine, 24,90 euro). Un libro rigoroso e curatissimo, con un ricco repertorio di spartiti ad uso e consumo dei cori e un lungo percorso nella cosiddetta “Scuola nuorese”, dagli anni Cinquanta fino agli anni Duemila, passando per ogni singolo decennio tra una miriade di storie e curiosità. Una rassegna di voci e protagonisti, con un corredo di ben cinquanta partiture, da A s’andira a Sa còzzula, da Deus ti salvat Maria a Su perdonu, da Adios Nugoro amada a Non potho reposare. Un percorso musicale che è anche e soprattutto la storia di un’isola, di una città nel cuore dell’isola e della sua gente. «Sembra proprio che nel nostro patrimonio genetico ci sia la musica e la voglia di cantare – sottolinea Catte –, che insomma ogni nuorese sia potenzialmente un cantore. È facile vedere gruppi di persone che spontaneamente si riuniscono e cantano. La nostra è una cultura che trova espressione principalmente nella voce e nel canto, solistico, ma soprattutto corale». Anche se la coralità di scuola nuorese è figlia della modernità, «dei tempi relativamente recenti che hanno cambiato usi e costumi e la stessa città». «Nasce negli anni Cinquanta dall’esigenza di riunire più soggetti oltre i quattro o cinque necessari al canto a tenore e quello de sos croffarjos (delle confraternite religiose) – spiega ancora il maestro, direttore del Coro Ortobene di Nuoro e del Coro femminile Ilune di Dorgali –. Coloro che intendevano partecipare erano sempre di più: persone che amavano la propria storia e le proprie tradizioni e che volevano essere protagonisti di un progetto nuovo, e non più semplici spettatori. Il canto a tenore era riservato a pochi ed esperti coristi, così come quello delle confraternite. Queste due forme di canto non erano però più sufficienti a soddisfare le esigenze di una città in continua espansione» è l’analisi di Alessandro Catte. Che ben conosce l’antico detto nuorese «dolore ispinghet boche». Il dolore fa alzare la voce. E i canti nuoresi, infatti, nascono per esorcizzare «i nostri mali e quelli della nostra terra». Divertimento e svago, sì è vero, ma è anche vero che la scuola nuorese è qualcosa di molto più profondo.

Senza mai dimenticare, tuttavia, l’ironia pungente e amara, come quella di mastru Predischedda, mastru Manca ovvero Francesco Ganga, una delle tante anime che popolano la Bibbia di Nuoro: “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta. È proprio lui, mastru Predischedda che lascia ai posteri uno dei primi brani della coralità di ispirazione popolare: Zia Tatana Faragone. Sa fide la professo / chind’una timinzana / de cussu ’e zia Tatana /Faragone... Professo la fede con una damigiana di quello (cioè del vino) di zia Tatana (Sebastiana) Faragone (proprietaria terriera che vendeva il vino prodotto dalla sua vigna in uno dei tanti iscopiles di Nuoro). Un testo attribuito a Predischedda, armonizzato da Banneddu Ruju, intonato sulle note di Deus ti salvet Maria, una parodia che da un lato esalta il vino, dall’altro si prende gioco dell’allora cancelliere del tribunale di Nuoro.

Un altro classico della scuola nuorese è Bobore ficumurisca, un brano certamente profano anche se cantato sulla musica dei gosos. Tipico esempio della commistione tra le più antiche sonorità popolari con la musica sacra. Quella polifonia de sos croffarjos nata nelle sagrestie e che tanto ha influenzato la tradizione nuorese. Basti pensare che è sotto la guida del maestro organista Tomaso Madrigali, che operava nella chiesa delle Grazie, che nacque la Schola Cantorum della chiesa della Madonna delle Grazie, «prima palestra di canto polifonico» racconta Alessandro Catte. «I giovani, però, sentivano l’esigenza di migliorarsi riappropriandosi di un patrimonio popolare che rischiava di andare perduto – prosegue l’autore de “I miei canti” –. Si riscoprivano nenie dimenticate, antiche melodie legate a tempi remoti e a una Nuoro che già non c’era più. Il canto si trasferì così dalle chiese ai profani iscopiles e la via Majore divenne palcoscenico ideale, dove vedersi, incontrarsi e cantare». «La classe sociale non aveva importanza, la musica e lo stare in compagnia annullavano ogni differenza, creando al contempo nuove e importanti amicizie che consolidavano il gruppo. Ma non si cantava solo in sos tzilleris (altro termine sardo per “bettole”)... ». L’eco di quei canti si diffuse così rapidamente che presto si parlò di scuola nugoresa vera e propria. Era il 1950, l’anno zero. «È a partire dal 1950 che ha inizio la storia della nostra coralità». È dal 1950 che parte Alessandro Catte in questo suo nuovo viaggio.

Incarichi vacanti

Sanità nel baratro: nell’isola mancano 544 medici di famiglia

di Claudio Zoccheddu
Le nostre iniziative