La Nuova Sardegna

Quel poeta-regista visionario vide l’apocalisse moderna

di Gianni Olla
Quel poeta-regista visionario vide l’apocalisse moderna

Il film diretto da Abel Ferrara presentato all’ultimo festival del cinema di Venezia. Nuovi spunti di riflessione sull’opera dell’intellettuale più scomodo del ’900

29 settembre 2014
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CAGLIARI. Intervistato da Peter Bogdanovich, Orson Welles, alla richiesta di informazioni su un “certo Pier Paolo Pasolini”, del cui film “La ricotta” (1963) era stato protagonista, redarguì l’intervistatore, che snobbava quell’esperienza “oscura e estetizzante”, affermando che Pasolini era “Tremendamente intelligente e dotato. Magari un po’ matto, un po’ confuso, ma di un livello superiore. Parlo del Pasolini poeta cristiano andato a male e ideologo marxista. Non ha niente di confuso quando è su un set cinematografico. Autorità vera e grande libertà nell’uso della tecnica”.

Un personaggio noto nel mondo

L’esempio serve a far capire che lo scrittore, regista e poeta italiano è, allo stesso tempo, un personaggio conosciuto e osannato al di là delle nostre frontiere, ma di cui non è facile occuparsi in maniera sintetica, se non evocando, in scritti e film, la profezia sul degrado dell’Italia.

Il “Pasolini” di Abel Ferrara, fischiato al festival di Venezia, non rischia di cadere in queste false sicurezze. Più semplicemente, attraverso la drammatizzazione delle ultime quarantotto ore di vita del poeta, ci mostra un personaggio “geniale e sregolato”, tormentato dalla sua stessa creatività, nonché dalle sue scelte di vita che, all’epoca, esibiva come sfida al conformismo sociale, culturale e morale. Certo, già alle prime sequenze, se il viso scavato e lo sguardo dubbioso di William Dafoe, duplicano egregiamente il vero Pasolini, la voce di Fabrizio Gifuni (il doppiatore italiano) ci allontana dalle sua presenza verbale, quasi ossessiva, che ancora oggi è possibile ascoltare nelle rievocazioni televisive.

Lo straniamento iniziale – comunque inevitabile – viene però ulteriormente rafforzato, fino a diventare banale, nella prima parte del film, quella in cui il regista, dopo aver curato, a Parigi, l’edizione francese di “Salò”, mostra un suo lato pubblico che, paradossalmente, sembra avviarsi alla normalizzazione.

Scrive su “Il Corriere della sera”, è intervistato da Furio Colombo, ha in mente altri progetti editoriali e filmici. E, soprattutto, è un “figlio di famiglia” che vive placidamente con l’adorata madre (Adriana Asti) e con la sorella, ricevendo la visita di Laura Betti (Maria de Medeiros), e del cugino Nico Naldini (Valerio Mastrandrea).

Petrolio, romanzo postumo

In questa placidità esistenziale c’è comunque lo spazio per immaginare la vicenda appena abbozzata di “Petrolio” – suo romanzo postumo – a cui si collega la visione catastrofica della politica come “palazzo del potere” quasi kafkiano.Diciamo che, fino a questo punto, il film prosegue lungo una linea normalizzata all’eccesso, e, soprattutto, quasi incomprensibile per chi non conosca a fondo la biografia di Pasolini. Eppure, anche in questi frammenti, c’è già una linea interpretativa: immaginare il personaggio come visto da un alieno. E del resto anche le visioni romane, di scorcio, che mescolano assieme il passato e il presente – i palazzi “metafisici” dell’Eur – appartengono alla stessa idea di una scoperta “aliena” che si rifà a Fellini o al Sorrentino de “La grande bellezza”.

Porno-Teo-Kolossal

Progressivamente, il film prende quota – anche se con molti inciampi – immaginando un Pasolini vitalista e ancora disposto a dare battaglia, ma non già pronto al sacrificio, come molti intellettuali scrissero all’indomani della sua uccisione. Così, per circa un’ora la cronaca essenziale dell’ultima sera/notte s’intreccia con le immagini filmiche – inventate da Ferrara – di un altro progetto incompiuto: “Porno - Teo – Kolossal”, sorta di fiaba cristiana, con tanto di re magi, che sembra voler duplicare il dialogo filosofico di “Uccellaci e uccellini” in una dimensione spirituale e totalmente fantastica.

Le poche pagine del soggetto originale – che accenna ad una partecipazione, nel ruolo del protagonista Epifanio, di Eduardo De Filippo – si trasformano così in un film “a parte”, di nuovo attraversato dalla costante schizofrenia registica di Ferrara. Se infatti la parte poetico-filosofica di questa ricostruzione è davvero misteriosa e affascinante come le sequenze più belle di Pier Paolo Pasolini, il “porno-kolossal” è invece orrendo. Ma anche questo sta nelle corde di un autore che si dichiara pasoliniano («è stato, senza saperlo, il mio maestro»), ma il cui unico film vicino alla “cristianesimo andato a male” di Pasolini, è “Il cattivo tenente”, storia della discesa agli inferi di un “arrabbiato” senza speranza, la cui forma, lo stile, la tecnica e la poetica non possono che essere americanissimi.

Il finale

Così, anche il finale del film, scritto assieme all’italiano Maurizio Braucci, mentre si libra verso il cielo a cui sono diretti i personaggi di Ninetto e Epifanio, intercetta virtualmente il tragico finale: “La terra vista dalla luna”, come recitava il titolo di un suo bellissimo cortometraggio del 1966 che, appunto, anticipava il viaggio dei due sognatori visualizzati da Ferrara. Purtroppo Epifanio e Ninetto vedono solo le terribili e sanguinose macerie del nostro pianeta, e soprattutto la morte del sognatore Pasolini. Dunque, pur con le sue cadute di gusto e con le tante banalità tematiche, questa biografia impropria è molto più interessante di quanto non ne abbiano scritto molti critici da Venezia.

E soprattutto, cerca di misurarsi con nostri miti – Pasolini è ormai l’emblema di una visione apocalittica della modernità persino scostante nella sua ripetitività – mettendo al centro il suo essere non già un sociologo ma piuttosto un poeta della complessità contemporanea. Certo uno dei grandi artisti del Novecento.

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