La Nuova Sardegna

“La ghianda è una ciliegia” approda alla Sapienza

di Guido Melis

Il libro proposto agli studenti come esempio di narrativa popolare italiana Il volume di Giacomo Mameli coi racconti sulla guerra dei vecchi di Perdasdefogu

25 settembre 2014
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di Guido Melis

«Una specie di Spoon River sardo» è stato definito. Se non fosse, verrebbe da aggiungere, che molti di questi testimoni, diversamente dai morti narranti di Edgar Lee Master, sono ancora in vita: centenari, ma sempre lucidissimi. Perdasdefogu, il piccolo Macondo dove si collocano questi racconti, ha oggi il primato planetario della longevità, vantando la famiglia che ha cumulato nelle sue generazioni viventi più anni al mondo: i Melis.

Il libro di cui sto parlando si intitola “La ghianda è una ciliegia” ed giunto ormai alla sua quarta edizione (Cuec editore, Cagliari). L'ha scritto Giacomo Mameli, giornalista coraggioso, conoscitore in profondo della Sardegna più remota. Il titolo rimanda a una frase raccolta – come tante – dal magnetofono dell'autore: «Mangiavamo le ghiande e, quando le trovavamo, ci sembrava avessero il sapore delle ciliegie, tanta era la fame». Il tempo è quello drammatico della seconda guerra mondiale. Una grande tragedia collettiva nella quale in tanti, come i poveri pastori e contadini di Perdasdefogu (Foghesu, nel dialetto ogliastrino), si trovarono loro malgrado coinvolti e poi finirono per esserne le vittime, senza nulla conoscere e nulla sapere, ignari e inermi di fronte alla schiacciante violenza della storia implacabilmente nemica.

Storie terribili con protagonisti sinora rimasti senza volto né voce: come Vittorio Palmas, noto Cachedda; o Peppino Carta, Coa Allutta; o Mario Casu de Saveriu; o Mario Demontis, Cancius; o Antonio Lai, Scòttula; o l'altro Vittorio Palmas detto Cazzài. Storie di infanzie scalze passate a giocare in campagna, di adolescenze piene di sogni bruscamente interrotti, di amori tenerissimi mai sbocciati sino in fondo, di amicizie paesane durate tutta una vita. E di partenze per fronti lontani, senza capire dove e perché; di sofferenze inaudite; di freddi polari affrontati all'addiaccio, con addosso misere divise di panno; di malattie mal curate; di ordini assurdi. Di amici e compagni caduti senza scopo. Alla dura realtà della guerra fa da contraltare la dolcezza dei ricordi foghesini: popolati quasi sempre dalle ragazze rimaste in paese, ad aspettare. Quelle giovani donne straordinarie cui il libro dedica pagine emozionanti, citandole, per la prima volta anch'esse, per nome e cognome: Maria Cercapane, che «vagava in cerca di cibo come la volpe affamata in cerca di uova e galline»; o Luigina Mura, sposa nel 1940 di un ragazzo che morirà in guerra dopo averle dato il piccolo Raimondo: «Noi sole – racconterà ormai vecchia a Mameli –. Senza mariti e senza fidanzati. Ogni tanto arrivava un telegramma…».

Una storia dal basso. Intessuta non di documenti scritti ma di ricordi, pazientemente sollecitati, registrati, trascritti, ricuciti insieme. Tant’è che il libro sarà proposto quest'anno agli studenti della Sapienza come esempio di narrativa popolare italiana. Mameli spiega come ha realizzato il libro (e l'altro, successivo, “Il forno e la sirena”, Cuec, 2013, che ne rappresenta la necessaria continuazione): «Da semplice giornalista – dice – senza mai tradire la fonte. Loro parlavano e io registravo. Poi a casa trascrivevo. Poi tornavo a rileggere insieme e accettavo senza discutere tutte le correzioni. "No, non è così che ti ho detto. Questo non va bene. Dillo così". Pazientemente, riga dopo riga, costruendo una specie di metodo che somiglia molto a quello con il quale un altro grande narratore della realtà contadina, il piemontese Nuto Revelli, scrisse anni fa libri importantissimi sulla storia delle Langhe.

C'è, in questi racconti, una umanità toccante, che coinvolge il lettore. Come la storia di Pierino Monni, finito a dare una mano in infermeria, sul fronte russo: «Ma tu – gli chiede l'ufficiale medico – hai già lavorato in ospedale?». «No, signor Tenente. Ho aiutato qualche volta il medico del mio paese». «Bravo. Come ti chiami?» «Monni Pierino, classe 1920, di Giuseppe e Praxiolu Massimina». «Sardo vero?». «Vero, sardo. Anzi, sardissimo».

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