La Nuova Sardegna

«Racconto senza finzione» Cagnoni e la fotografia

di Antonio Mannu

Il grande fotoreporter a Palau inaugura la sua prima mostra in Sardegna

17 settembre 2014
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PALAU. «Il fotografo dice Romano Cagnoni – fa un lavoro diverso da un artista o da uno scrittore, ma ha problemi simili. Lo scrittore inventa personaggi, un pittore inventa un'immagine, entrambi hanno un rapporto con il reale. Un fotografo le immagini le raccoglie e ha il compito di raccontare l'esistenza delle persone vere e la realtà. E' magnifico ciò che può fare senza inventar niente. Vede le cose, vuol dar loro un significato, ha un'idea e quell'idea deve diventare forma». A margine dell'incontro di Palau abbiamo fatto a Cagnoni alcune domande».

Lei ha lavorato a lungo in Gran Bretagna e in ambito internazionale ma anche in Italia. Quali le differenze?

«Ho collaborato spesso con giornali italiani. Dopo il mio rientro in Italia ho lavorato molto con Venerdì di Repubblica ed ho incontrato varie volte Eugenio Scalfari, con il quale ho avuto discussioni complesse e anche vivaci sul tema dell'utilizzo della fotografia in ambito giornalistico.

Io ritenevo e ritengo che nelle redazioni inglesi ci fosse un approccio più attento e rispettoso per la fotografia e l'approfondimento giornalistico e i giornalisti inglesi con cui ho lavorato capivano la fotografia. Ai nostri inviati, con delle eccezioni, spesso della fotografia non importava quasi niente. Ed è un peccato ed un errore, che evidenzia un approccio superficiale e un po' sciatto alla professione, perché la fotografia accompagna e rende più immediatamente intelligibile ciò che si scrive».

Forse c'è qui in Italia una tradizione di scarsa attenzione al ruolo del fotografo e alla potenzialità della fotografia. Ricordo delle valutazioni di Ferdinando Scianna che parlava dei suoi esordi. Disse che il fotografo allora era considerato uno con poca cultura, incapace di mettere idee e concetti uno in fila all'altro?

«Questo accadeva anche in Inghilterra, meno negli Stati Uniti. C'è da dire che anche i fotografi hanno colpe e manchevolezze. Ed è vero che a noi occorre una sensibilità più intuitiva e meno intellettualmente “ragionata”, per la quale però sono necessarie qualità precise. Forse questo può generare l'impressione e l'equivoco di una minor raffinatezza. Invece un buon fotografo è obbligatoriamente colto e coltivato».

Durante la guerra del Biafra lei trascorse lunghi periodi nei luoghi di conflitto. Ho letto che fu uno tra i primi fotografi a far questo?

«E' vero e fu in quel periodo che altri fotografi cominciarono ad avere un approccio meno fugace, ad esempio Philip John Griffith o Catherine Leroy, una carissima collega francese. C'è un libro sulla fotografia di guerra di Jorge Lewinski in cui sono menzionato per questo. Per me era necessario, l'unico modo per avvicinarmi alla popolazione e comprenderla».

Stiamo parlando di un giornalismo che non c'è più. Come è cambiato?

«Non so se sono la persona più adatta per rispondere, perché ormai da alcuni anni non mi occupo di giornalismo. Faccio altre cose, sempre in ambito fotografico, ma nel mondo della carta stampata credo sia tutto cambiato. E mi spiace perché a me i giornali e il giornalismo sono serviti moltissimo, hanno riempito la mia vita e mi hanno consentito di esprimermi come fotografo, che per me vuole dire raccontare l'esistenza umana». La mostra di Romano Cagnoni sarà visitabile sino al 30 settembre. Per informazioni 3391459168.

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