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Un medico sassarese in Africa per lottare contro Ebola

di Giovanni Bua
Un medico sassarese in Africa per lottare contro Ebola

Saverio Bellizzi, 37 anni, epidemiologo di MsF: «Situazione critica, ma l’Europa non rischia il contagio»

20 agosto 2014
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SASSARI. Il contagio in Europa o negli Stati Uniti? Una tipica psicosi occidentale, simile a quella per la quale la gente non vaccina i figli contro il morbillo credendo a leggende sbugiardate da decenni. La pericolosità dell’Ebola? Enorme. Soprattutto dove manca tutto, e i bambini e gli anziani non hanno la forza di combattere. Il lavoro in Africa? Duro, durissimo. Anche perché i malati aumentano, e i medici impegnati sono sempre gli stessi. Dall’Italia siamo 24. Con turnazioni massacranti, e la terribile esperienza di aiutare persone che nel 90 per cento dei casi moriranno.

Parlava chiaro nell'agosto del 2014 Saverio Bellizzi, sassarese di 38 anni, da otto uno degli epidemiologi di riferimento di Oms e Medici senza Frontiere. Raccontava e spiegava, con il tono pacato e disincantato di chi ne ha viste troppe per potersi crogiolare nel dolore, che pure è tanto. E la prudenza di chi lavora da anni negli scenari più caldi del mondo: Haiti, Pakistan, Lampedusa e Filippine.

E poi tanta Africa. Due volte solo nel 2014: un mese in Guinea, nell’epicentro del virus, poi altre quattro settimane a Telimele, altro focolaio guineano. Meno di trenta giorni di pausa nella sua Sardegna. E a settembre di nuovo in missione con MsF «l’unica organizzazione – spiega – in grado di gestire presidi sanitari sul luogo».

Uno sforzo, che non era sufficiente a contenere un’epidemia fuori controllo. «Non aspettiamo i fondi dei governi. Sono i cittadini che potrebbero fare la differenza. Se qualcuno vuole donare qualcosa è il momento giusto. Anche perché l’epidemia durerà ancora sei mesi, se non un anno. E le risorse non sono illimitate».

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Non che medici, paramedici e volontari si tirino indietro: «Abbiamo aumentato le turnazioni – spiegava Bellizzi – ma il lavoro è massacrante. Dal punto di vista fisico, visto che dobbiamo indossare grandi tute di isolamento con annessa maschera. Dopo cinque minuti senti le goccioline di sudore scendere dappertutto. Ti si appanna la visiera. E devi anche muoverti lento, per evitare cadute accidentali che potrebbero esporti a un possibile contagio. Si può resistere al massimo mezz’ora, e quando ti togli li stivali li svuoti letteralmente dal sudore». Ma anche dal punto di vista psicologico: «Non è certo gratificante – sottolinea Saverio Bellizzi – pensare che quasi tutte le persone che curi moriranno».

L’avversario è di quelli da far tremare i polsi: l’Ebola. Dallo scoppio dell'epidemia nei cinque paesi colpiti si contavano 1.229 decessi su un totale di 2.240 casi. E, se Nigeria e, in parte, Sierra Leone e Liberia, tenevano botta, in Guinea la mortalità era da peste cinquecentesca. «E aumenta – sottolineava Bellizzi – a seconda dei posti, delle condizioni medie di salute, della malnutrizione. Della contemporanea presenza della malaria, che in questa zona è il vero macellaio».

Il problema è sia sanitario che culturale. «Nei villaggi non c’è memoria di questa malattia. Molti credono sia inventata, e possono arrivare anche a violente forme di reticenza alle cure. O alla sottovalutazione dei sintomi fino a quando la malattia è conclamata. E, a quel punto, contagiosissima e praticamente sempre letale. Pensate al classico guaritore del villaggio che prova a trattare un paziente con sintomi conclamati di Ebola. Si ammalerà a sua volta, contagiando tutti quelli con cui verrà a contatto».

A peggiorare le cose poi l’estrema mobilità delle popolazioni della zona. Che si muovono di centinaia di chilometri al giorno per approvvigionarsi d’acqua, di cibo. L'Organizzazione mondiale della sanità stava lavorando con il programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite per assicurare la consegna di cibo a un milione di persone che vivono in quarantena in Guinea, Liberia e Sierra Leone. «Il cibo sarà consegnato ai pazienti ospedalizzati e alle persone in quarantena – spiegava Bellizzi –. Assicurare la consegna a domicilio è un potente mezzo per limitare i movimenti e quindi il rischio contragio».

Rischio contagio? Rischio nullo in Europa e Stati Uniti. «L’Ebola – spiega Bellizzi – è estremamente nociva dentro l’organismo quanto labile fuori. Per disattivare il virus basterebbe, dopo essere entrati in contatto col virus, lavarsi le mani col sapone. E inoltre non è contagioso fino a quando i sintomi non sono evidenti. Oltrettutto la malattia ha un andamento tempestoso. In una settimana o dieci giorni si sviluppano sintomi che, senza trattamenti adeguati, portano rapidamente alla morte. I migranti hanno almeno un anno di viaggio alle spalle per attraversare il Sahara e trovare il modo di salpare».

Nessun rischio insomma per l’occidente, assicurava Bellizzi. E dunque rischio maggiore che l’epidemia diventi una delle tante che, ignorate, fanno strage in Africa. «Senza un massiccio miglioramento delle azioni di risposta contro l'epidemia è chiaro che la situazione peggiorerà nelle zone più colpite – sottolineava  il medico sassarese –. Per quanto riguarda la visione del mondo, e soprattutto dell’Africa, che un occidentale ha è, a esser buoni, grossolana. La gente non sa quasi nulla di quello che succede qui. Bisognerebbe invece informarsi, dalle fonti giuste. E provare ad aprire gli occhi e il cervello. È un viaggio senza ritorno, ed è meraviglioso farlo».

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