La Nuova Sardegna

Guardare il mondo attraverso i fumi delle grandi ciminiere

Il sogno dell’industrializzazione che si trasforma in incubo Una città e il suo poeta e scrittore, morto troppo presto

04 agosto 2014
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di MASSIMO ONOFRI

La si può sorvolare mentre si atterra all’aeroporto di Fertilia o ci si può arrivare lentamente in traghetto, ma Porto Torres apparirà sempre per quella che è, col porto che spurga in mare i veleni d’un progresso sconciato, ormai sterile e incattivito. Alle spalle quei mastodonti industriali che sfiatano ancora, ma con fatica, come in attesa dell’ultimo rantolo, estremi e mendaci testimoni del sogno d’una modernità sbagliata e violenta. E dire che le sue spiagge e gli scogli, magari al tramonto d’un bellissimo novembre, arrivano a restituirci una dolcezza persino insostenibile: purché sia, quel novembre, un mese d’insoliti desideri e d’amori giovani, irruenti. Quando è vero che poi, non lontano da qui, la bellezza fiorisce ancora senza sforzo, con imperturbabile, direi divina, naturalezza: poco più a ovest, in effetti, l’Asinara s’invapora nelle acque caraibiche, ma assolute, di Stintino. Mentre a est, se un’edilizia affrettata e un po’ cialtrona non ci offendesse a tutt’oggi, le dune e i pini di Platamona correrebbero beati, in un’esplosione d’odori.

Porto Torres e l’insediamento petrolchimico, dicevo: che, a metà degli anni ’60, rappresentò il sogno d’una classe operaia che ancora credeva nella possibilità di scalare il paradiso, ma che si rivelò presto, per i figli e i nipoti di quegli operai, una maledizione, una vera discesa all’inferno. Me lo chiedo senza polemica alcuna e anche con umiltà, privo come sono di risposte ideologicamente precostituite: quanta parte hanno avuto, questo sogno di modernizzazione, questi giorni di scorie e di miasmi, nella proliferazione di tumori e metastasi – tanti, troppi, oltre le più esagerata statistiche – dei figli migliori della città? Porto Torres, il suo poeta e scrittore, l’avrebbe avuto, se solo gli avesse dato il tempo di maturare e invecchiare, senza che la più subdola e ignobile delle malattie, la più impietosa con chi è giovane, lo strappasse a tutti coloro che – e sono moltissimi – lo hanno amato e stimato, all’età di ventisette anni. Sto parlando di Fabrizio Pittalis, che è stato mio allievo, mi pare tra il 2004 e il 2005, nella facoltà di lingue e letterature straniere, frequentando i corsi di critica letteraria.

Rivedo ora con commozione le fotografie postate su Facebook dal padre Gigi, che ha impegnato strenuamente se stesso – quasi un presentimento – nelle battaglie perse dell’ambientalismo, e dall’ancora bellissima madre, Lia Ruggiu, che continua a sciogliere nel canto il suo dolore, così accarezzandolo. Ecco Fabrizio pensoso: davanti al mare di Balai, con tutti i feroci segni della chemioterapia. Fabrizio su un muretto: sempre lo stesso mare struggente all’orizzonte, un cane, la gamba amputata. Fabrizio ancora in salute sdraiato accanto alla compagna Ilaria: tempia contro tempia, gli occhi di tutti e due che hanno la bellezza straziante della gioventù che sarà oltraggiata.

Di questo incantevole ragazzo ci resta ora un singolare libretto postumo (2009). S’intitola “Molto spiacenti, Sir" e ci restituisce un Fabrizio estroverso, euforico, come liberato dalla malattia. Ora sa bene che nulla potrà essere più sprecato: i minuti come le parole, i baci come gli sguardi. Sperimenta tutto, in prosa e in poesia: con allegria, con impareggiabile umorismo. C’è la sua immaginazione litigiosa e scontornata. Ci sono i suoi pensieri ancora scompigliati. C’è la sua grande, delicatissima umanità, l’amore stupito per la vita, per niente disperato. C’è la sua infinita grazia: «Al bagno degli uomini preferisco l’odore delicato di quello delle donne in cui m’infiltro ogni volta che posso per goderne in solitudine la strana luce».

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