La Nuova Sardegna

«Dopo lo sparo un urlo così ho ucciso Atienza»

di Piero Mannironi
«Dopo lo sparo un urlo così ho ucciso Atienza»

L’ex poliziotto Giuseppe Virgona ricorda il conflitto a fuoco vicino a Orgosolo Morirono gli agenti Pietro Ciavola e Antonio Grassia e il braccio destro di Mesina

04 agosto 2014
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di Piero Mannironi

Le tragedie hanno sempre bisogno di eroi. Forse perché nella retorica della morte le coscienze possono trovare un'assoluzione per le debolezze, le viltà, le paure e le incapacità. Ma i ricordi di chi ha vissuto il dramma, di chi ne è stato protagonista, hanno una carica potente che cerca sempre di far riemergere la crudezza dei fatti per ristabilire l'ordine delle cose e restituire la verità alla storia. E così, dopo 47 anni di silenzio, un uomo ha deciso di parlare. Per raccontare cosa accadde realmente su un aspro pendio tra Orgosolo e Oliena il 17 giugno 1967, quando una pattuglia di poliziotti della Celere, i cosiddetti "Baschi blu", si scontrò con la banda di Graziano Mesina. È la prima "battaglia" di Osposidda, diventato un pezzo di storia del banditismo. In quel dolce pomeriggio di tarda primavera morirono due agenti di polizia, due servitori dello Stato, Luigi Ciavola e Antonio Grassia, e rimase ferito a morte Miguel Atienza, il fidato braccio destro di Mesina.

Perché ho deciso di parlare. «Mi chiamo Virgona, Giuseppe Virgona, sono l'uomo che ha ucciso Atienza nel conflitto a fuoco di Osposidda. Ho deciso di parlare perché è giusto che si sappia cosa è realmente accaduto quel giorno terribile e per denunciare l'ostracismo che dopo è stato fatto nei miei confronti. Quasi mi si facesse una colpa di essere sopravvissuto o di avere raccontato ai giudici la verità di quel giorno. E cioè che fummo lasciati soli a combattere contro la banda Mesina. Io, Ciavola e Grassia fummo abbandonati al nostro destino».

Oggi Virgona ha 72 anni, ma di quel giorno ha un ricordo molto nitido. «Era una giornata calda, estiva. L'aria era tersa. Io allora facevo parte dei "Baschi blu", gli agenti della Celere che erano stati spediti in Sardegna per combattere il banditismo. Quel giorno c'era una grande mobilitazione. Poco prima delle 14, infatti, c'era stato uno scontro a fuoco vicino a Orgosolo tra cinque banditi e una pattuglia di carabinieri. I fuorilegge erano riusciti a sganciarsi ed era stata così organizzata una caccia all'uomo. Tra i banditi erano stati riconosciuti Mesina e Atienza. Nella mia pattuglia eravamo in cinque. Oltre me, c'erano il brigadiere Martinelli, e gli agenti Ciavola, Grassia e Cellamare».

L’inganno di Grazianeddu. «Erano circa le 17 quando li abbiamo visti. Erano quattro o cinque e venivano giù verso di noi scendendo guardinghi lungo il costone tra i cespugli di lentischio e di mirto. Quando sono arrivati a una ventina di metri, gli abbiamo intimato l'alt. "Andate via - ci hanno risposto loro - siamo carabinieri". E noi di rimando: "Noi siamo Baschi blu", venite avanti a fatevi riconoscere". Ovviamente avevamo subito capito il loro inganno. Ci siamo però resi conto che loro, dall'alto, si trovavano in una posizione di vantaggio e noi eravamo allo scoperto. Non c'erano rocce o muretti dove potersi riparare. Solo cespugli e macchioni».

Tra "Baschi blu" e banditi comincia così un dialogo a distanza. I minuti passano. È chiaro: i fuorilegge cercano di prendere tempo. Evidentemente stanno decidendo cosa fare: se aprire il fuoco o cercare di sganciarsi risalendo il costone. La pattuglia di Virgona è l'avanguardia di un piccolo contingente di poliziotti, una trentina, che si trovano 150-200 metri più a valle, giù verso il Rio Sorasi.

Continua Virgona: «A un certo punto il brigadiere Martinelli ha gridato: "E' una trappola, aprite il fuoco”! Io ero nella posizione più avanzata della pattuglia e ho fatto fuoco per primo con il mio mitra Mab. Lo ricordo benissimo: ho sentito un grido, poi un lamento strozzato provenire da dietro un cespuglio. Sì, penso proprio di aver colpito io Atienza».

Colpi di fucile e raffiche di mitra.Improvvisamente il tempo sembra fermarsi e dilatarsi. È solo adrenalina, sudore e l’odore acre della cordite che avvelena il profumo dolce del mirto. Il silenzio di Osposidda viene ferito ancora da colpi di fucile e raffiche di mitra. Poi ritorna la calma.

«E noi gridiamo ancora ai banditi di arrendersi» ricorda Virgona. «Loro dicono di sì, ma non escono allo scoperto. Ci accorgiamo che arretrano. Passa il tempo in questo strano dialogo tra noi e loro. Nell’aria c’è una tensione inaudita. Sono passate più di due ore dal primo contatto con Mesina e i suoi e ci rendiamo conto che i banditi stanno aspettando che si faccia notte per dileguarsi. Siamo in difficoltà, inchiodati in una posizione di netta inferiorità. A un certo punto il brigadiere Martinelli dice all’agente Cellamare: “Scendi a valle e chiama i rinforzi”. Quei rinforzi che incredibilmente non sono ancora arrivati, nonostante quello scontro a fuoco che ormai durava da quasi tre ore... Io, Ciavola e Grassia siamo a una decina di metri l’uno dall’altro. Siamo stanchissimi, tesi. Alle 20 si scatena l’inferno: Mesina tenta una sortita e sbuca dai cespugli sparando con un fucile mitragliatore».

«La prima raffica mi sfiora la testa. Istintivamente rispondo al fuoco. Alcuni proiettili mi lacerano la mimetica. Mi butto a terra e rotolo fino a un macchione e subito mi rendo conto che la mia tuta è ridotta a brandelli. È proprio in quel momento che perdo di vista Ciavola e Grassia. Sento ancora sparare e mi accorgo di avere quasi finito le munizioni. Sono le 20 ed è quasi buio. Sono stremato dopo 3 ore di conflitto e svengo».

L’interrogatorio in ospedale. «Al mattino presto, intorno alle 6, sento delle voci: “Virgona! Virgona!”. “Sono qui”, rispondo e mi sollevo a fatica da terra ed esco dal cespuglio. C’è il tenente Mangano che dice: “Sì, è lui, è uno dei miei uomini”. Sono ancora confuso. Sento dire: “Ci sono due morti, bisogna avvertire il magistrato”. “Già fatto - dice un altro – portateli via”. Mi sento invadere dalla tristezza quando vedo i cadaveri dei miei due compagni».

«Mi portano in ospedale. Sono ancora confuso, prostrato. Il primo ad arrivare è un magistrato, il dottor Francesco Marcello. Mi chiede come sono andate le cose e io gli racconto tutto: la trattativa, il lungo conflitto, il ferimento di uno dei banditi e che nessuno per tutta la sera e la notte è venuto ad aiutarci. Poi arrivano i superiori, il capo della Polizia Angelo Vicari, il prefetto, colonnelli dei carabinieri e questori. Sento parole di circostanza, ma per me non c’è neppure una stretta di mano. Avverto nei miei confronti freddezza, quasi un’ostilità. E la prima cosa che penso è che la mia deposizione al magistrato possa aver creato un problema. Sicuramente un grande imbarazzo nei miei superiori per la gestione assurda del conflitto».

Per Virgona comincia un lungo calvario. Quando torna al lavoro percepisce mormorii e malignità nei suoi confronti. I colleghi sembra che lo accusino di essere scappato, di essersi nascosto, ma nessuno parla del fatto che sul crinale cespuglioso di Osposidda lui e la sua pattuglia sono stati lasciati soli. Per 25 lunghissime ore.

Un lungo calvario. Conclude Virgona: «Dopo vent’anni mi sono congedato, portandomi dentro un’infinita amarezza. Qualche anno fa, esattamente nel 2007, ho letto una lettera di un commissario, Giuseppe Pino, pubblicata su una rivista. Pino racconta che era a Osposidda nel ’67. Dice: “Il conflitto a fuoco durò nel complesso per circa 3 ore. Poi intervenne una strana quiete. Noi rimanemmo accovacciati per tutta la notte, opportunamente nascosti”. Già, nascosti. Come ho sempre detto io».

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