La Nuova Sardegna

Un’identità in bilico Nuoro da Satta a Fois

di MASSIMO ONOFRI

Oltre i lacci della tribù, una libertà alta ed orgogliosa Come anche nell’ultimo romanzo di Alessandro De Roma

21 luglio 2014
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di MASSIMO ONOFRI

Il dato è di un’evidenza inoppugnabile. Non sono molte, in Italia, le città di sangue blu come Nuoro: almeno da un punto di vista letterario, con quella toponomastica perfettamente riconoscibile e già leggendaria. Andate, che so, alla Chiesa della Solitudine: che, nelle pagine di Grazia Deledda, si strema sulla verticale d’una irredimibile isolitudine. Nuoro, insomma: con le sue donne straordinarie, dalla volontà di ferro, tutte figlie sue, e dilaniate, in quelle pagine, tra rimorso e desiderio, furiosa brama di vita e feroce bisogno di espiazione. Anche perché, se si ama (l’amore è, qui, una condanna irrevocabile), non può che essere per sempre e contro il mondo, con le sue leggi spietate.

Sarebbe poi arrivato Salvatore Satta, scrittore d’Europa tra i più grandi, a ravvisare nel cimitero della città la grande crepa che ingoia tutti i codici della convivenza, tutti i miti identitari d’una gente che ha creduto d’avere un’identità, mentre quello stesso consorzio di uomini e donne, litigioso e risentito, astioso e angusto, si candida a metafora di tutta l’umanità, fotografata ai tempi del silenzio assordante di Dio. Perché “Il giorno del giudizio” resta, confitto nel cuore del secolo che non finisce di finire, come il falò definitivo d’ogni speranza: mentre quei morti, che forse non furono mai vivi, ci chiedono d’essere liberati persino del peso di essere vissuti.

Nuoro non ha mai smesso di credere ai suoi scrittori ed è stata in ogni caso ricambiata, non importa se nell’odio o nell’amore. Perché da Nuoro è impossibile andarsene, persino quando si emigra. Basterebbe pensare, quanto alla generazione di mezzo, al Marcello Fois che s’è fatto bolognese e cosmopolita, ma che di Nuoro parla in ogni sua pagina, anche quando sembra scrivere di tutt’altro. Arrivato dopo il combusto romanzo di Satta, il Fois più recente ha provato a eludere le tentazioni del nulla con l’ultima forma d’ottimismo possibile, quella biologica della stirpe: per resuscitare l’antica araldica barbaricina, come riconvertendola a stemma d’una postrema e disperata resistenza della vita. I nuoresi sono uomini e donne di tenacissimo concetto: sicché, quando s’emancipano davvero dagli annodatissimi lacci della tribù, sanno guadagnare una libertà azzurra come il cielo che bagna la città, una libertà alta e orgogliosa come la montagna che la sovrasta.

Quella libertà di giudizio che ho ritrovato ora in un giovanissimo di talento, Alessandro De Roma, classe 1970: il quale si libera con naturalezza da ogni pericolosa deriva folklorica, da ogni facile agiografia agro- pastorale. Leggete “La mia maledizione”, il suo notevole romanzo pubblicato da Einaudi: la storia d’un adolescente, Emilio Corona (e del suo impresentabile amico Pasquale Cosseddu), scaraventato dal tranquillo liceo De Castro di Oristano al pur mitico Asproni, che vi guiderà nella Nuoro di oggi, sconciata e periferica, la nuova frontiera d’una cementificazione che e ha come pioniere, appunto, il genitore del giovane e asociale protagonista: «Sarebbe stata finalmente solo quello che era, cioè un ammasso di palazzi gettati a sfregio da mio padre». La Nuoro, aggiungerei, dei duri conflitti di classe, dentro una vicenda di mortificazione e tradimento: non senza, però, che i due giovani, all’alba della loro amicizia, si sollevino dentro la poesia del venturoso monte Orthobène, quando si consegnano, inaccessibili e finalmente coincidenti con se stessi, a una Natura restituita nella sua struggente bellezza, epperò tenuta sempre al di qua d’ogni retorica. Com’è proprio dell’orgoglioso pudore, della dignità reticente della sua gente.

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