La Nuova Sardegna

El Nazareno, risorto per servire il Cartello

di SABOT
El Nazareno, risorto per servire il Cartello

Da Medellìn a Madrid per gestire i traffici dei colombiani in Europa

21 luglio 2014
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di SABOT

Mio padre aveva un mulo che lo aiutava nei lavori in campagna. Si chiamava Pepe, come mio zio. Grigio e spelacchiato, sembrava non soffrisse mai il caldo, tantomeno la fatica.

C'era un solo accorgimento da tenere presente, quando si stava vicino a Pepe: non dovevi mai passargli dietro. Quel bastardo dalle orecchie a punta aveva un tempismo perfetto. Non appena ti trovavi alla distanza giusta, scalciava. Una volta mi dimenticai di questa regola. Mentre aiutavo mio padre a sistemare la stalla, passai dietro al mulo e un istante dopo mi ritrovai a tre metri di distanza, piegato dal dolore e con il segno di uno zoccolo in pancia.

La notte in cui mi spararono, a Medellin, ebbi la sensazione di essere tornato in quella stalla. A colpirmi, però, erano stati tre proiettili, sparati da alcuni traditori del Cartello.

Anche se quello che più ricordo di quel momento non è il dolore, ma la sensazione di impotenza. L'impossibilità di reagire, di controllare in qualche modo la situazione. A quello, nella mia vita, non ero proprio abituato.

Avevo sempre pensato che i pezzi di piombo, quando ti entrano veloci nella carne, bruciassero come pezzi di lava incandescente. Invece non provai nulla. Rimasi a terra, immobile, con i polmoni a cercare di rubare tutta l'aria possibile, e il cuore che scalciava all'impazzata, peggio di Pepe. Da terra, potevo vedere Pablo Escobar e Almamuerta che sparavano e ricaricavano. Il Patrón del cartello e il suo sicario più fedele. Come fossero in guerra. Ogni tanto mi lanciavano uno sguardo per capire se ero vivo, ma io non potevo fare niente per confermarglielo. Muovermi, era impossibile. Sentivo la voce del capo che urlava il mio nome. Distante, ma chiara. D'un tratto, Almamuerta scattò. Con una mano mi sollevò da terra, mentre con l'altra continuava a sparare. Il suo occhio sano scrutò nel mio sguardo alla ricerca di un cenno qualunque di vita. Avrei voluto rispondere. Dirgli di andarsene. Perché quei figli di puttana avevano le mitragliatrici e tanti proiettili, e noi solo le nostre pistole. Lo sentii imprecare mentre lanciava, come un sasso, la sua pistola scarica nella loro direzione.

Sembrava tutto perduto, poi alle nostre spalle giunse un'auto. Altri colpi di mitra risuonarono nella notte. Questa volta, a fare fuoco erano i nostri compagni.

Mi sentii sollevare di peso e caricare sui sedili posteriori di un Suv che subito dopo si lanciò a velocità folle per le strade di Medellin. Il mio cuore non pompava più forte come prima, sembrava sul punto di arrendersi da un momento all'altro. Almamuerta si era tolto la camicia e premeva con forza contro le ferite. Alternava preghiere e imprecazioni contro l'uomo alla guida, ordinandogli di spingere su quel maledetto acceleratore.

Rimasi in coma per tre giorni.

Alla fine del tunnel non vidi luci, né fotogrammi della mia vita.

Nulla, a parte il buio.

I medici mi avevano dato per spacciato. Non che avessero tutti i torti. Per estrarre i proiettili dal mio corpo c'erano volute quattro lunghe ore d'intervento. Secondo la migliore delle previsioni, sarei dovuto rimanere un vegetale. Ma avvenne un milagro. Un miracolo. Il bip della frequenza cardiaca iniziò a farsi più frequente. E riaprii gli occhi. La prima cosa che vidi fu il volto sfocato di mia moglie. La sentii ringraziare Dio piangendo e baciandomi il volto e le mani.

Alle sue spalle, vidi Almamuerta.

"El Nazareno".

Fu l'unica cosa che disse, abbracciandomi.

E fu così che tutti mi chiamarono da quel giorno.

Dopo quella resurrezione, el Patrón annunciò pubblicamente la mia morte.

All'inizio non riuscii a capire.

Poi, tutto mi fu chiaro. Escobar aveva dei piani per me. Sapeva che il Cartello non sarebbe stato eterno, che i gringos della Dea, presto o tardi, gli avrebbero messo i bastoni tra le ruote.

Aspettò che mi ristabilissi, poi mi convocò a Hacienda Napolés e mi assegnò la mia parte di eredità: la Spagna.

All'inizio non avevo nessuna intenzione di accettare. La mia terra era la Colombia. Lì ero nato, e lì volevo rimanere. In Spagna andavo per occuparmi dei carichi di coca, ma non riuscivo a vederla come casa. Quel giorno discutemmo, cosa che un boss non è mai abituato a fare. Mi rispose che il commercio con gli Stati Uniti stava cambiando. Che anche gli americani erano diversi. E noi dovevamo cercare nuovi mercati. Era uno che la sapeva lunga, el Patrón.

Io capii solo dopo ciò che lui aveva già ben chiaro. Non tutti i prigionieri possono essere rinchiusi. Quale prigione può ospitare l'uomo più potente di tutta la Colombia, un uomo che ha corrotto e ha fatto ammazzare migliaia di persone, che ha liquidato ministri, candidati presidenti, giornalisti e poliziotti, un uomo che da solo guadagna più di ogni altra impresa del Paese, e che si permette di rapire il Ministro della Giustizia per ricattare il Governo? Nessun carcere avrebbe mai potuto ospitare Escobar. Solo una tomba.

Così, la mia vera resurrezione avvenne in Spagna. Una nuova patria, e una nuova identità. Morto l'uomo che ero, don Pedro de la Ardila, nacque Rafael Velasquez, onesto imprenditore del marmo.

A Madrid, tutto fu diverso.

Non c'era alcun bisogno di ammazzare. Bastava concludere buoni affari, corrompere le persone giuste al posto giusto. Far girare il meccanismo.

Ogni tanto però, per quanto uno si possa prendere cura di quegli ingranaggi, c'è sempre un granello di polvere in grado di incepparli.

Il mio, si chiamava Carlos Hernández.

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