La Nuova Sardegna

Resta un condannato per un delitto che ora non c’è

di Gianni Bazzoni
Resta un condannato per un delitto che ora non c’è

Giuseppe Bigella si era autoaccusato del crimine e deve scontare una pena di 14 anni di reclusione

24 giugno 2014
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SASSARI. Alla fine, tra Cagliari e Sassari c’è una divergenza evidente: da una parte un collaboratore di giustizia che si è autoaccusato dell’omicidio di un detenuto trovato morto nella sua cella del carcere di San Sebastiano in circostanze misteriose, ed è stato condannato dal gup a 14 anni di carcere. Trascinando, con il suo racconto, cinque imputati. Dall’altra, una sentenza della corte d’assise sassarese che ieri ha - di fatto - stabilito che Marco Erittu non è stato ucciso. E che, in ogni caso, quelle persone tirate in ballo - con vari ruoli dal pentito reo confesso Giuseppe Bigella - non hanno niente a che fare con la storia della morte in cella del 18 novembre 2007. Tutti assolti perché il fatto non sussiste. Bisognerà attendere le motivazioni per conoscere in che modo i giudici sono arrivati alle conclusioni che aprono un nuovo livello di confronto. In mezzo c’è la vicenda di un collaboratore di giustizia, credibile per la Dda - che aveva anche cristallizzato le sue dichiarazioni nel corso di un incidente probatorio - e per l’accusa nella corte d’assise. Inattendibile, invece, per i giudici. Non ci sono prove che Marco Erittu sia stato ucciso nella sua cella del terzo braccio di San Sebastiano, dove è stato trovato privo di vita. La lunga attività investigativa non ha portato elementi di certezza che potessero sostenere una accusa così grave: l’uccisione di un detenuto per ordine di un altro, con due esecutori - di cui uno reo confesso, e già condannato per l’efferato omicidio (quello della gioielliera di Porto Torres) e l’altro, Nicolino Pinna, che fin dal primo momento si è dichiarato estraneo ai fatti e ha sottolineato come fantasiose le dichiarazioni del collaboratore di giustizia. Sulla stessa linea anche il presunto mandante-regista, Pino Vandi, e gli agenti della polizia penitenziaria che avrebbero favorito con i loro comportamenti la messa in opera dell’omicidio che poi doveva sembrare suicidio.

Da ieri, non si può più parlare di omicidio per la morte di Marco Erittu. La sentenza dice che non è stato ucciso, che quegli imputati non sono responsabili della sua morte. E se resta il giallo, è riferito ad alcune circostanze che in un istituto carcerario come quello di San Sebastiano possono avere una loro parte nella lunga storia che è passata anche per vicende molto gravi, come il pestaggio che aveva fatto scalpore a livello nazionale.

È giusto dire che nella storia di Marco Erittu ci sono delle cose che ancora oggi non tornano. Certo, potrebbero essere iscritte nella lista delle carenze e delle mancanze, delle paure che oggi appaiono quasi normali in un sistema penitenziario vecchio stampo che in quella «vergogna» di San Sebastiano aveva ancora più falle.

C’è, per esempio, il mistero della coperta le cui misure non tornano mai. Sfilacciata per ricavare una striscia - quella che sarebbe stata utilizzata da Marco Erittu per togliersi la vita - non ha mai avuto una misura giusta. E neppure le diverse perizie hanno chiarito cosa possa essere successo. Viene da immaginare che sia stata sostituita, ma è una ipotesi. Marco Erittu, dunque, se non è stato ucciso potrebbe essere stato vittima di un tentativo di suicidio poi sfuggito di mano. Solo che, in quel momento, chi doveva sorvegliarlo a vista magari non era esattamente al suo posto. Perché in quella sezione anche gli agenti della polizia penitenziaria cercavano di stare il tempo strettamente indispensabile. «C’era un odore insopportabile – aveva raccontato uno degli agenti che per anni hanno prestato servizio a San Sebastiano – e appena potevi andavi fuori a respirare». È possibile che quando l’occhio umano ha indagato nella cella di Marco Erittu, il detenuto fosse già morto. E allora nel tentativo di rappresentare un fatto che troppo spesso accade nelle carceri - quello del suicidio - siano stati commessi degli errori per coprire un episodio tragico. Azioni che, comunque, hanno una valenza diversa rispetto all’accusa di essere parte di un gruppo che esegue l’ordine di uccidere un recluso.

Alla fine, rimane il bisogno di chiarezza. La verità di Giuseppe Bigella è solo sua e di chi gli ha creduto condannandolo per un omicidio che - alla luce della sentenza di ieri- non ha commesso. Senza dimenticare le mezze dichiarazioni di Marco Erittu che aveva fatto credere di essere a conoscenza di particolari relativi alla scomparsa di Giuseppe Sechi e Paoletto Ruiu, rapiti e mai tornati a casa. Cose forse scritte ma mai arrivate a destinazione. E che fanno parte del mistero che rimane.

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