La Nuova Sardegna

Detenuto morto in cella «Non fu un omicidio»

di Nadia Cossu
Detenuto morto in cella «Non fu un omicidio»

I giudici della Corte d’assise di Sassari hanno assolto i cinque imputati Il pm aveva chiesto l’ergastolo per Pino Vandi, Nicolino Pinna e Mario Sanna

24 giugno 2014
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SASSARI. Niente carcere a vita, il fatto non sussiste e gli imputati vanno assolti. Dopo undici ore di camera di consiglio il presidente della corte d’assise di Sassari Pietro Fanile legge la sentenza che assolve in primo grado Giuseppe Vandi, Nicolino Pinna e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna dall’accusa di aver ammazzato il detenuto Marco Erittu, trovato morto nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Per tutti e tre il pubblico ministero Giovanni Porcheddu aveva chiesto la pena dell’ergastolo. E secondo i giudici non sono colpevoli nemmeno gli altri due imputati Giuseppe Soggiu e Gianfranco Faedda, accusati di favoreggiamento, nei confronti dei quali la Procura aveva sollecitato una condanna a quattro anni.

Alle 21.30, nel palazzo di giustizia di Sassari ci sono lacrime, commozione, abbracci. Le parole che sintetizzano gli stati d’animo vissuti dal 2011 a oggi da avvocati e imputati (due di questi erano agli arresti domiciliari) sono quelle pronunciate dall’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna: «Oggi mi è stata restituita la dignità che mi avevano strappato via ingiustamente tre anni fa».

Il processo. La formula ampia che “accompagna” la sentenza di assoluzione ha un significato preciso: per i giudici della corte d’assise Marco Erittu non è stato ucciso. Il racconto fornito dal pentito Giuseppe Bigella (l’ossatura del processo si basava soprattutto sulla sua confessione) non regge, mentre resta in piedi l’ipotesi iniziale: suicidio.

Così era stato archiviato nel 2007 il caso del detenuto trovato morto nella cella liscia del braccio promiscui di San Sebastiano. Marco Erittu, secondo le indagini dell’epoca, si era tolto la vita impiccandosi con una striscia di coperta che aveva legato alla spalliera del letto. In precedenza aveva già manifestato l’intenzione di farla finita, aveva messo in atto gesti di autolesionismo e per questo intorno alla sua morte c’era ben poco mistero. O almeno era così fino al 2010, quando Giuseppe Bigella, un detenuto che stava scontando in carcere una condanna a trent’anni per l’omicidio della gioielliera di Porto Torres Fernanda Zirulia, decide di parlare con gli inquirenti e raccontare la sua verità sulla fine di Erittu.

La svolta nell’inchiesta. Il pentito dice alla Procura che quel detenuto di San Sebastiano in realtà non si è suicidato. E fa anche di più: si autoaccusa del delitto. «Sono stato io ad ammazzarlo – dirà agli inquirenti – perché ho eseguito un ordine di Pino Vandi. L’ho soffocato con un sacchetto di plastica, mi ha aiutato Nicolino Pinna, che poi ha simulato il suicidio con la striscia di coperta. Ad aprirci la cella è stato l’agente Mario Sanna». Queste, in estrema sintesi, le dichiarazioni che riaprono clamorosamente il caso Erittu e che fanno scendere in campo la Dda di Cagliari.

I sequestri di persona. Giuseppe Bigella spiega infatti ai giudici che il detenuto doveva essere ucciso perché aveva deciso di rivelare al procuratore della Repubblica Giuseppe Porqueddu che Pino Vandi era coinvolto nella scomparsa del muratore di Ossi Giuseppe Sechi legata a sua volta al sequestro del farmacista di Orune Paoletto Ruiu (entrambi mai tornati a casa). Per questo Erittu doveva sparire.

Il dibattimento. Durante il dibattimento accusa e difesa si sono scontrate su vari elementi. In particolare sull’attendibilità del reoconfesso. «Un essere umano tende a non accusarsi – aveva esordito Porcheddu nella sua requisitoria – e invece in questo caso la naturale tensione alla libertà viene invertita. Bigella incolpa se stesso e nella sua confessione c’è una coerenza espositiva dilatata nel tempo». Ma la difesa, invece, ha sempre puntato il dito sulla credibilità del chiamante in correità che anche nell’ambito del delitto Zirulia aveva tentato di accusare il figlio della vittima indicandolo come mandante. L’uomo era stato indagato ma poi la sua posizione era stata archiviata. Secondo i difensori, Bigella avrebbe adattato il suo racconto sul caso Erittu alle informazioni di cui veniva a conoscenza leggendo i giornali del periodo. Articoli che sono stati prodotti in sede dibattimentale. Ma soprattutto ci sono le perizie: quella di Francesco Maria Avato che aveva scartato l’ipotesi del suicidio e quella dell’ingegnere tessile Badiani che aveva escluso che la striscia trovata sul collo della vittima provenisse dalla coperta sequestrata nella cella. Secondo l’accusa la dimostrazione di un inquinamento probatorio, per la difesa la prova che Bigella era un mentitore. Le certezze del pm si basavano anche sulle presunte contraddizioni relative alla posizione del cadavere al momento del ritrovamento. E poi i dubbi sulla lettera nella quale la vittima chiedeva di incontrare il procuratore e che non arrivò mai a destinazione perché qualcuno la fece sparire. Missiva che secondo la difesa andò invece persa per altre ragioni.

Ora si attendono le motivazioni della sentenza.

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