La Nuova Sardegna

Pigliaru non firma l’accordo con la Difesa

di Umberto Aime
Pigliaru non firma l’accordo con la Difesa

La Regione: ridiscutere il protocollo d’intesa, equa distribuzione dei doveri «Difficile accettare l’uso di una parte dell’isola per sparare e bombardare»

20 giugno 2014
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INVIATO A ROMA. Il discorso della ribellione è a mezzogiorno, nel salone monumentale e austero della Cecchignola. Sarà di fuoco? Lo sarà eccome, anche se Francesco Pigliaru è un pacifista convinto, ma quando ci sono di mezzo le servitù militari bisogna essere duri, strateghi, impermeabili e spietati. Le prime parole del governatore sono una cannonata e fanno il botto: «Non sono qui per firmare un protocollo d’intesa con il ministero della Difesa». È il gelo in sala, tremano le colonne e i colonnelli: «I tempi non sono maturi – continua con una flemma che gli invidierebbero nella miglior Scuola di guerra – Ci sono ancora troppi punti di cui vogliamo discutere prima dell’accordo e della condivisione». Legge e guarda negli occhi militari, deputati, sindaci, anche se a saltare più di altri sulla poltrona è il sottosegretario della Difesa, Domenico Rossi, ex generale di corpo d’armata da quando è in Parlamento grazie a “Scelta civica”.

Chi nel curriculum ha dichiarato di essere stato anche comandante dei Granatieri di Sardegna, guarda i casi della vita, ha un sussulto evidente, nel sentire cosa dice il vicino di bancata: «Sulle servitù militari – sono le parole di Pigliaru – i sardi protestano da troppo tempo e per decenni lo Stato ha resistito con dilazioni burocratiche e indennizzi inadeguati».

Ora basta, la sopportazione è finita, dura addirittura dal 1981, anno della prima e finora unica conferenza nazionale sulle servitù. «L’allora assessore e poi presidente della Regione, Mario Melis, denunciò in quei giorni la pesante sproporzione fra il peso della presenza dei militari nell’isola e quanto imposto a gran parte delle regioni italiane», è la citazione del governatore, con voce solenne.

Trentatrè anni dopo nulla è cambiato: la vecchia denuncia purtroppo è ancora attuale, reale e spaventosa. Gli ettari militarizzati erano 30mila nel 1981 e sono ancora gli stessi, nonostante diversi ordini del giorno del Parlamento e del Consiglio regionale, i cortei di protesta e le ultime inchieste della magistratura. «È arrivato il momento di cambiare – è un’altra stoccata del governatore –. La Sardegna è una terra pacifica, generosa sul Carso, fiduciosa da più di 150 anni in un rapporto giusto con lo Stato. È per questo che oggi chiediamo giustizia, correttezza delle regole, certezza dei diritti ed equa distribuzione nei doveri». Che invece è mancata troppo spesso, l’equità, non solo nel complicato e difficile capitolo delle servitù militari. «Siamo di fronte a un anacronismo – ancora il presidente – e quando non si tollera più una situazione così grave c’è il rischio, spesso sottovalutato, che s’intacchi la fiducia nella leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali». Nessuno, in Sardegna, vuole far tremare la Repubblica, «abbiamo sempre dimostrato un grande rispetto per le Forze Armate e il loro compito istituzionale», ma «ora i sardi, e questa non è una lamentela tattica finalizzata ad alzare il prezzo, non possono più accettare l’uso di una parte così ampia del nostro territorio per sparare, bombardare, cannoneggiare, lanciare missili, invece di saperlo utilizzato in laboratori di ricerca, oppure stabilimenti votati all’alta tecnologia e allo viluppo di brevetti».

È questo che dovrebbero essere le servitù da almeno un decennio: la faccia buona, finora vista poco o nulla, dell’invasione militare. Non è così e lo sanno tutti. «Allora – sempre dal discorso di Pigliaru – noi partecipiamo alla conferenza con una certezza: termini e valori delle servitù devono cambiare in tempi certi». Il governatore lo dichiara, vorrebbe subito almeno qualche messaggio di disponibilità dalla controparte: ad esempio la restituzione di Porto Tramatzu, a Teulada, perché non è più una postazione strategica bensì lo stabilimento balneare riservato ai militari, oppure l’esclusione secca dei giochi di guerra da giugno a settembre. «Sarebbero due importanti segnali di buon gusto e discontinuità», è la richiesta immediata di Pigliaru, anche se poi arriverà la promessa del tavolo bilaterale, come dal discorso finale del ministro Pinotti.

A quell’appuntamento, annunciato presto, il governatore ha detto che «nessuno potrà prescindere dai nostri otto punti»: tutela dell’ambiente e della salute, processi di riequilibrio del peso militare, avvio dei processi di riconversione, dai missili alla ricerca. A cominciare da una buona parte dei 90 milioni d’investimenti annunciati per Teulada. E ancora: definire un percorso condiviso per «valutare i costi provocati dai mancati progetti alternativi dei Comuni in cui insistono i poligoni», mai fatto, e poi «accelerare la dismissione e l’acquisizione al patrimonio regionale dei beni del Demanio militare non più in uso e non più necessari».

Per finire, con le bonifiche, «ogni rinvio sarebbe inaccettabile», e «l’istituzione di osservatori indipendenti», perché «tutti abbiamo bisogno di dati certi per sederci leali, sereni e trasparenti intorno a un tavolo di confronto». Con un ultimo lancio di dardi, questo: «Noi non vogliamo più subire e neanche essere assistiti. Vogliamo negoziare e fare buoni accordi. Vogliamo solo crescere». Niente firma dunque, alla Cecchignola, un domani si vedrà.

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