La Nuova Sardegna

La descrizione eroica e la brutale verità I registi e il conflitto

di Gianni Olla
La descrizione eroica e la brutale verità I registi e il conflitto

di Gianni Olla Si celebra il centenario della Prima guerra mondiale. Non si contano gli appuntamenti televisivi, quasi sempre pregevoli, con storici e giornalisti che raccontano il prima, il durante...

05 giugno 2014
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di Gianni Olla

Si celebra il centenario della Prima guerra mondiale. Non si contano gli appuntamenti televisivi, quasi sempre pregevoli, con storici e giornalisti che raccontano il prima, il durante e il dopo di quella tragedia che aprì “il secolo breve” e terribile. Inevitabilmente, nel corso delle discussioni, spunta fuori la domanda di rito, rivolta ad uno storico: “se dovesse scegliere un film rappresentativo di quella guerra?”. E la risposta è egualmente decisa e condivisa: “La grande illusione” di Jean Renoir. In alternativa, si cita “All’ovest niente di nuovo” di Milestone (1930), tratto dal celebre “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Remarque, o il suo film parallelo, di produzione tedesca, “West Front” di Pabst (1930). In questi tre titoli sono accomunati, irritualmente, due visioni opposte della Grande Guerra. La prima è quella illusoria di Renoir, ideata quando si stava profilando un nuovo conflitto, in cui non avrebbero avuto più posto gli aristocratici “cavalieri del cielo (l’aviazione non era ancora un arma di distruzione di massa) Pierre Fresnay e Eric Von Stroheim, due dei protagonisti del film.

Al loro posto, si profilava un’altra illusione: la gente comune (i personaggio interpretati da Gabin e da Marcel Dalio, il soldato ebreo) si sarebbe ribellata alle nuove guerre. Per accentuare l’illusione, Renoir non inserì nel film una sola immagine in cui si vedono delle truppe combattenti e neanche aeroplani che soccombono alle mitraglie dei nemici. Ciò nonostante, l’illusione fu giudicata pericolosa: il film fu proibito nella maggior parte dei paesi europei e Goebbels spiegò ai dirigenti della Mostra internazionale d’arte cinematografica, a Venezia, dove la pellicola ebbe un clamoroso successo, che, in Germania, un regista come Renoir sarebbe stato fucilato.

Negli altri due film ci sono invece i soldati e le trincee: fangose, piene di morti viventi, di esseri umani affamati e malati; e poi gli assalti suicidi verso le trincee avversarie, e i cumuli di cadaveri lasciati sul terreno. E prima ancora di queste immagini dell’orrore che caratterizzano i film di Milestone e Pabst – e della maggior parte dei grandi film sulla Grande Guerra – da “Orizzonti di gloria” di Kubrick a “Per il re e per la patria” di Losey, da “Uomini contro” di Rosi a “Gallipoli” di Weir, quasi tutti ricavati da romanzi e memoriali di ufficiali e soldati – ecco invece “la grande parata” (è il titolo di un film del 1925, patriottico ma ugualmente tragico, di King Vidor che ebbe un clamoroso successo in tutto il mondo) dei giovani borghesi (studenti, impiegati) che invasero le piazze a partire dalle prime voci di guerra, nell’estate del 1914, dopo l’attentato di Sarajevo del 28 di giugno. Gli stessi giovani che poi si misero in fila ordinatamente per arruolarsi volontari e avviarsi, sempre cantando gli inni nazionali e sventolando le bandiere, verso il fronte. In un volume recentissimo dello storico (anche del cinema) Giuseppe Ghigi, “Le ceneri del passato”.

Il cinema racconta la Grande guerra” (Rubbettino Editore), si parte proprio da questa cons. tatazione mediatica: le prime immagini, documentarie, e poi funzionali alla propaganda (anche in Italia, che entrerà nel conflitto nel maggio del 1915), mostrano l’entusiasmo di massa, o le prediche di qualche anziano professore patriottico ai propri studenti, quindi l’orrore delle trincee, quasi sempre censurate dagli stati maggiori. Lo schema “disillusorio” contagia tutte le cinematografie popolari, e soprattutto quella statunitense, a partire dall’entrata in guerra, tardiva ma decisiva, nel 1917, che vede tra gli “arruolati” propagandisti persino Charlie Chaplin. Il suo “Charlot soldato” (1918) è già un capolavoro comico – l’eroe cattura nientemeno che il Kaiser, ponendo fine alla guerra – ma anche tragico, visto che mostra la vita di trincea esasperando, con accorgimenti surreali e grotteschi, la sofferenza dei combattenti. Insomma, se la seconda guerra mondiale è simbolizzata dalla feroce mostruosità della tecnica (i carri armati, le portaerei, i bombardamenti a tappeto, le città della morte naziste, governate appunto dalla tecnologia, la bomba atomica) che cancella letteralmente l’umano, la Grande guerra è ancora un conflitto di uomini; non di eroi – come vuole appunto la propaganda – ma di contadini e borghesi mandati al massacro.

Ed è paradossale constatare che, in realtà, la tecnologia avrebbe contato molto anche in quella guerra. Se ne accorsero gli artisti, a partire dallo scrittore Ernst Junger che, nel suo “Tempeste d’acciaio”, autobiografico, racconta, con efficacia anti melodrammatica, oggettiva, una sorta di esaltazione (tossica) per la potenza tecnologica della guerra, orrorifica e distruttiva, ma anche capace di temprare l’individuo più di ogni altra esperienza. E non fu caso se lo scrittore, più volte decorato per le sue azioni, fu inizialmente tra i sostenitori della nuova tempesta d’acciaio hitleriana. Ma soprattutto i futuristi e i cubisti videro nella guerra non solo la possibilità di una visione scomposta e frantumata, velocizzata (anche questo aspetto lo ricaviamo dal volume di Ghigi), delle battaglie, dei corpi che volano in pezzi, del paesaggio che si “astrattezza” dopo i bombardamenti, ma anche la potenza tecnologica che esaspera il precedente entusiasmo positivista: gli aeroplani, i treni blindati, la Grande Berta tedesca (di nuovo raffigurata in maniera grottesca da Chaplin in “Il grande dittatore”), e i cannoni mostruosi che bombardarono Parigi, o anche per tornare allo sguardo degli scrittori, la citazione wagneriana de “Il Tempo ritrovato” – “Manca solo la cavalcata delle Walkirie” – che Marcel Proust utilizza per spettacolarizzare la Parigi notturna bombardata dagli Zeppelin.

Ma nonostante queste straordinarie elaborazioni creative, fondate su un aspetto certo importante nella visualizzazione bellica, forse l’immagine più forte rimane quella kubrickiana (“Orizzonti di gloria”) del capitano francese, interpretato da Kirk Douglas, che percorre, in un lunghissimo piano sequenza (unificante di tutte le vecchie scomposizioni cubo-futuriste), la trincea da cui dovrà partire l’ennesimo e inutile assalto alle linee tedesche, e che, successivamente, provocherà un processo-farsa, ovvero una decimazione nei confronti dei soldati poco coraggiosi che sono riusciti a rimanere vivi e che dunque saranno uccisi dai loro compagni.

(1 – continua)

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